Si torna a parlare di Antonio Tabucchi dopo i racconti de Il gioco del rovescio. Con questo romanzo epistolare racconta un amore che finisce, ma lo fa in un modo un po’ anomalo proponendo una serie di lettere dal destinatario e dal mittente poco identificati. Tra alcune sembra di riconoscere lo stesso autore, in altre lo spirito visionario prende il sopravvento e il risultato di questa raccolta è quello di confondersi all’interno di un vortice di amanti rassegnati e relazioni annegate. Alcune di queste lettere si prendono uno spazio che va aldilà di una comunicazione a due, aprendo un mondo a chi le legge, senza risparmio di fantasie e situazioni metaforiche. Il filo rosso che collega tutto è quello caro a Tabucchi: l’inconsistenza degli accadimenti di fronte all’esistenza che mai sa spiegarsi e definirsi fino in fondo.
Scrive nella lettera Il fiume (inizialmente intitolata Senza fine come la canzone di Gino Paoli, precisa l’autore in un Post Scriptum):
E poi, il giorno dopo, io faccio quello che ho fatto il giorno dopo, e anche tu, e poi il mese dopo faccio quello che ho fatto il mese dopo, e poi dopo e dopo ancora dopo. Fino al giorno in cui senza dirtelo ti dissi che era finita. E lì c’è un momento indistinto, non so se breve o lungo (ma questo importa poco), che quelli delle metempsicosi, nel loro codice, chiamano anàstole, con il quale tutto ricomincia perché il cerchio si chiude e si riapre immediatamente.
Prendendo come pretesto la fine di un amore, l’autore racconta storie diverse attraverso voci maschili distinte, variando i paesaggi circostanti, il tono, gli scopi. Indaga l’amore, ma senza essere autoreferenziale e soffermandosi su tutti quei piccoli avvenimenti della vita che vanno a lasciare un segno. Come ad esempio il ricordo di un viaggio non fatto e quello di un libro mai scritto, punti cardine di una di queste lettere, Libri mai scritti, viaggi mai fatti, che porta già nel titolo tutta la nostalgia di questa raccolta.
Insomma, il vero viaggio da non fare era Samarcanda. Io ne serbo un ricordo indimenticabile, e così nitido, così dettagliato come possono darlo solo le cose vissute davvero nell’immaginazione. […] Avevi mai pensato che il Don Chisciotte è un romanzo realistico? E invece, un giorno, ecco che all’improvviso da Don Chisciotte tu diventi Madame Bovary, con la sua incapacità di delineare i contorni di ciò che desiderava, di decifrare il luogo in cui si trovava, di contare i soldi che spendeva, di capire le stronzate che faceva: erano cose reali e le parevano aria, e non il contrario. Quale enorme differenza: non si può dire “andavo in una città lontana”, oppure “era un premuroso signore che mi teneva compagnia”, oppure “non credo fosse amore, piuttosto una specie di tenerezza”. Non si possono dire cose così, amore mio, o almeno non potevi dirle a me, perché quella era la tua illusione, la tua povera patetica illusione: quella città aveva un nome preciso e non era poi così lontsna, e lui solo un uomo di una certa età con cui andavi a letto. Era un tuo amante che credevi fatto d’aria, ma che era di carne.
Il libro mai scritto a cui accenna in questa lettera non sono altro che quei confusi appunti raccolti nel suo ultimo libro uscito, postumo, Per Isabel. Ed è commovente vederne gli albori in queste pagine disordinate.
Un amore è anche tutto ciò che non è detto, non si è fatto, non si è capito, tutto quello che non può stare raggomilato e tranquillo tra le parole di una lettera. A chiudere una missiva conclusiva, scritta da mano femminile.