Lev Tolstoj, autore di Anna Karenina e Guerra e pace, ebbe dalla vita proprio tutto quello che oggi ogni scrittore possa desiderare. Fama e gloria per le sue opere, successo in campo filosofico, popolarità per il suo stile, per il suo interesse relativo alle tematiche sociali, estro creativo senza limiti. Ebbe quattordici figli e una vita abbastanza lunga ed agiata per l’epoca. Se si guarda però alla sua infanzia, segnata dalla morte prematura dei suoi genitori, e alla sua giovinezza durante la quale prese parte alla guerra del Caucaso e a quella di Crimea, ci si accorge che la sua esistenza è percorsa da una continua lotta per il proprio sviluppo interiore in quanto uomo e scrittore. La sua continua analisi dei propri processi mentali, delle situazioni e degli eventi circostanti, portano Lev Tolstoj a sviluppare un profondo malessere esistenziale, talvolta preponderante nella sua vita. La sua è una costante ricerca della moralità nel mondo, del significato da attribuire all’esistenza umana, in un reale che di sensato ha ben poco.
Le sue domande sono relative ai grandi temi della vita: il denaro, la fama, la famiglia, la morale, le ragioni dello scrivere, l’esistenza nel suo senso più ampio. Le sue riflessioni sono raccolte in un’opera, “A Confession and Other Religious Writings” (Una confessione ed altri scritti religiosi), pubblicata per la prima volta nel 1879, dieci anni dopo Guerra e pace e appena due dopo Anna Karenina. Sono questi tempi in cui la sua fama di scrittore sta scemando, le sue opere migliori sono ormai nel passato, e una profonda malinconia si impossessa del suo spirito. Come afferma lui stesso, tale forma di malattia mentale è perfettamente associabile ad una malattia fisica mortale i cui sintomi sono stati ignorati in un primo tempo e poi sottovalutati, per poi ritrovarsi in punto di morte ad accorgersi del male reale. Conscio dell’impossibilità di fermare tale processo, Lev si chiede perché mai l’uomo “continui a fare tali sforzi? Perché continuare a vivere? È sorprendente!”. La sua risposta risulta davvero semplice: “Si può continuare a vivere solo quando si è inebriati della vita; non appena si è sobri, allora è impossibile non vedere come tutto sia solo un semplice e stupido tranello”.
Tali interrogativi portano direttamente a farsi una domanda fondamentale: quella sulla presenza o meno di significato della vita. Lev non dà una risposta univoca, non la conosce e forse neanche dimostra di avere interesse nel sapere la risposta. Proprio perché un pensiero univoco, decisivo e risolutorio non esiste. Propone però quattro antidoti a tale quesito. Il primo è quello dell’ignoranza, del non porsi interrogativi, del fare finta di non conoscere ciò che in realtà si sa benissimo. Il secondo, quello dell’epicureismo, dell’approfittare cioè di tutto ciò che la vita può regalare. Secondo Lev, la maggior parte delle persone si comporta così, traendo profitto dalle circostanza e dagli avvenimenti che regolano la loro vita, ignorando, però, che tali situazioni sono puramente accidentali e casuali. La terza via di fuga è quella del suicidio, adottata da coloro che hanno compreso appieno la stupidità di quest’insulsa barzelletta che preferiscono troncare anziché far ridere. L’ultima via è quella della debolezza, quella di coloro che hanno capito tutto, che preferiscono la morte alla vita, ma che non hanno la forza morale per porvi fine, e sono nell’eterna attesa di qualcosa.
Cosa resta allora, Lev? “La fede è la forza della vita. Se un uomo vive, allora crede in qualcosa. Senza fede non può vivere”.