Ieri mi sono immaginato un ribelle. Era vestito così: una maglia e dei pantaloni. No che non avrebbe potuto avere un giubbotto di pelle. E degli stivaletti. Non è questo, intendiamoci. Ma ieri, cioè quando me lo sono immaginato io, non li aveva.
Si era svegliato alle cinque. Non per andare al lavoro. O meglio, non solo per quello. C’era tempo, c’erano ancora tre ore di tempo. Il fatto era un altro. Bisognava ridurre gli sprechi. Gli sprechi di vita. Tanto per cominciare voleva farsi una bella colazione. E lenta, soprattutto lenta. Dopo, come sempre, avrebbe cominciato a leggere. Gli piacevano i romanzi. Quelli lunghi, soprattutto. Gli facevano una bella impressione. “Se chi scrive non deve sfornare libri come fossero ciambelle”- pensava- “anche chi legge deve farlo con calma. E i libri lunghi, dato che ci si mette l’anima in pace, aiutano”. Poi era uscito. Era uscito a farsi una passeggiata. C’era un bel sole. Usciva anche con un cielo non proprio eccezionale. A patto che non piovesse, però. Ribellarsi al tempo sarebbe stato interessante. Ma non al meteo, quello era stupido.
Il lavoro non era stato avvincente. Questo non solo ieri, cioè quando me lo sono immaginato io. Aveva comunque chiamato un amico, però. A lui piaceva molto ascoltarlo, anche a telefono. E poi c’era la frase di una canzone. Si erano lasciati su quella il giorno prima.
A casa, la sera, c’era chi lo aspettava, grazie a Dio. La sua famiglia, un’uscita con gli amici e Alla ricerca del tempo perduto di Proust. C’era anche una grande stanchezza, ma era di quelle fisiche, di quelle che si possono domare.
Ieri mi sono immaginato un ribelle. Aveva parlato poco, lo aveva fatto senza alzare la voce, non mandando nessuno a quel paese. No che non fosse indignato, ma dalla sua indignazione traeva positività. Non insulti. Voglia di cambiare, ecco. Perché lui lo sapeva, sapeva benissimo che si poteva vivere in un altro modo. Ed era questa forse la più grande rivoluzione. Pensava spesso a una cosa. Una cosa per lui molto importante. La grande bellezza si nasconde proprio nelle normali azioni di tutti i giorni, quelle che la nostra cultura ci spinge a ritenere banali, ripetitive e mediocri, spingendoci a considerare l’evasione dalla realtà come un qualcosa degno di grande lode e alla quale tutti dovrebbero tendere, per elevarsi. Lui non voleva evadere dalla vita, voleva amarla.
Aveva anche un poster in camera, il mio ribelle. Il soggetto era un po’ vecchiotto e poi si diceva che era inventato, che non esisteva. Anche lui non era evaso dal mondo, l’aveva solo migliorato, diciamo così. Era Don Chisciotte. “Ma come?”- obiettava lui- “uno di cui si parla da quattrocento anni, si dice che non esiste? E di me allora, che non parla mai nessuno?”