Quando si riflette sulla letteratura attraverso un approccio obiettivo e veritiero, occorre prendere in considerazione una molteplicità di fattori. Sebbene la letteratura nasca (si presuppone che sia così, perlomeno) come canale privilegiato di espressione di una qualche forma di sentimento, riflessione, denuncia, descrizione, e così via – si tratta quindi di una nobile arte, rispettata dalle menti più colte -, la verità è che bisogna farsi i conti in tasca. Nel vero senso della parola. Notoriamente, di letteratura non si può vivere. Innanzitutto, si va sfatato il falso mito per cui essere scrittore implica un portafoglio pieno, perché non tutti gli scrittori nascono “bestselleriani”, e spesso le vendite di un libro qualunque che non si riveli capolavoro sin dal suo esordio si fermano ad un numero piuttosto basso di acquirenti. In secondo luogo, il mercato della letteratura segue dinamiche estremamente complesse, di tipo non soltanto socioculturale come ci si aspetterebbe, ma anche di natura economica: entrano in gioco scelte di politica editoriale da parte dell’editore, eventuali strategie di marketing, pubblicità mediatica.
Insomma, fare lo scrittore, adesso, non è cosa per tutti. Ma è un problema che non interessa soltanto gli scrittori di oggi, è bensì una costante del nostro Paese, che si è rivelata in tutte le sue difficoltà in maniera più evidente a partire dalla fine dell’Ottocento. Dinanzi alla crisi che impediva agli scrittori un’autosufficienza minima e quindi di provvedere autonomamente al proprio sostentamento, oramai affrancatisi dalle autorità, questi avevano fondamentalmente perso il ruolo di portavoce della società. C’era la consapevolezza diffusa del terreno franato su cui poggiavano le loro identità individuali. L’intellettuale non era più ritenuto un valido interlocutore. Per sopravvivere a questa crisi, due erano le strade cui guardare: il giornalismo e l’insegnamento. Sulla scuola i giudizi risultavano estremamente negativi, poiché anche il docente aveva perso il ruolo di guida per diventare la tipica maestra dalla penna rossa. Il giornale, invece, sembrava aver rappresentato un’alternativa e un compromesso accettabile, e sicuramente strumento prezioso per recuperare autonomia e dignità. Uno dei casi più esemplificativi a riguardo è il caso di Carlo Lorenzini, meglio conosciuto come Collodi, scrittore bravo ma squattrinato, in cerca di un lavoro qualsiasi, purché ben retribuito, rivolto ad un pubblico indistinto, compreso quello dei bambini. Dall’altra parte, Ferdinando Martini era il direttore del cosiddetto Fanfulla della domenica, ed era proprio alla ricerca di nuovi collaboratori per la creazione del Giornale dei bambini. La congiunzione era bella che fatta: i due, assieme, stavano per realizzare un vero e proprio fenomeno letterario e culturale. Nonostante le prime ritrosie di Collodi, inviò la prima copia di quello che sarebbe diventato Pinocchio ma che in principio prendeva il nome de La storia di un burattino. Riscosse subito un grandissimo successo, e lo scrittore – intascato l’assegno sostanzioso – fu spronato a proseguire e a concludere la sua storia, uno dei più grandi capolavori della letteratura per l’infanzia.
Sebbene adesso la pubblicazione di racconti “a puntate” non sia più in voga, il caso di Collodi è sicuramente una preziosa testimonianza della difficoltà, allora come adesso, di vivere di sola letteratura.