Parigi. 1947. Musée de l’Orangerie.
Parigi. 2014. Musée d’Orsay. 45 capolavori pittorici, più alcuni disegni e lettere, in una mostra dal titolo “Van Gogh/Artaud, Le suicidé de la société” (fino al 6 luglio 2014)
Nel 1947 lo scrittore, poeta, attore, pittore francese Antonin Artaud visitò la retrospettiva dedicata al pittore olandese Vincent Van Gogh e scrisse, dietro consiglio dell’amico Pierre Loeb, il famoso saggio che oggi dà il titolo alla mostra.
A legare i due artisti, ora come allora, l’insegna della follia che campeggia sulle vite di entrambi.
A partire dal 1936, per otto anni, Antonin Artaud fu internato in diverse cliniche dove fu sottoposto a ben cinquantuno elettroshock. Il saggio nacque, quindi, sia in continuità con le Lettere di Rodez del 1945, scritte da Artaud mentre era internato nell’omonima clinica psichiatrica del dottor Ferdiér, di cui criticava il sistema (che considerava utile la terapia elettroconvulsionante), sia come risposta all’articolo Sa Follie? del dottor François-Joachim Beer, apparso sulla rivista Arts, che forniva il quadro psicologico di un Van Gogh “squilibrato con eccitazioni violente di tipo maniacale” , “ossessionato da idee di autocastrazione”, “dromomane”.
La tesi che Artaud porta avanti è che non era Van Gogh ad essere malato ma era la coscienza della società che, sebbene ingabbiata nel suo dubbio sistema psichiatrico, si ostinava a dichiararsi normale. La sua è una critica violenta alla società che in un altro passaggio definisce “crimine organizzato”.
“Si introdusse dunque nel suo corpo, questa società, assolta, consacrata, santificata e invasata, cancellò in lui la coscienza soprannaturale che egli aveva appena assunto, e, come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo animo interno, lo sommerse con un ultimo sobbalzo, e, prendendo il suo posto, lo uccise.” scrive Artaud.
Chiaro è il riferimento a Campo di grano con corvi (1890) al quale lo steso Van Gogh si riferisce nella Lettera 649: “Vi sono campi di grano infinitamente ampi sotto cieli temporaleschi.”
“Uccello in gabbia”, come si era definito nella Lettera 133, il pittore sembra, in questo dipinto, destinato a soccombere davanti alla superiorità degli elementi e alla domanda dove abbia trovato la pistola, dove si sia ferito, preda di un sentimento autolesivo, quel 27 luglio 1890, per poi morire due giorni dopo, a soli 37 anni, Artaud sembra avere una risposta molto precisa: la società “lo armò”.
Van Gogh, quindi, non morì come hanno sostenuto in tanti, e come sembravano evidenziare alcune lettere al fratello Theo, a seguito della presa di coscienza di dover pagare, con la morte, il prezzo della gloria né, secondo Artaud, “ per uno stato di delirio proprio, ma per essere stato corporalmente il campo di un problema attorno al quale, fin dalle origini, si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità. Quello del predominio della carne sullo spirito, o del corpo sulla carne, o dello spirito sull’uno e sull’altra.”
Il pittore stesso non l’aveva mai negato: avrebbe preferito “lavorare più nella carne che nel colore.”
La sua totale adesione ed immedesimazione con la realtà, quel “sentire” matericamente il colore, quell’amore incondizionato per la vita, dipinta “in piena convulsione”, espresso attraverso l’ipereccitabilità emotiva che lo fece definire folle, come tanti altri artisti, desiderosi di rivelare quelle “verità pericolose” di cui parla Artaud, fu la sua colpa più grande.
“Van Gogh cercò il suo (posto) per tutta la vita con un’energia e una determinazione strane, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò.”
Non è un caso, sembra dire Artaud, che Van Gogh si suicidò proprio nel momento in cui le esperienze peggiori della sua vita erano passate. La verità sta nel fatto che “I suoi dipinti erano bombe atomiche per gli standard dell’epoca e infastidivano il conformismo latente della borghesia e dei politici.”
Paradossalmente il “folle”, con la sua lucidità, turbava le coscienze.
Nella Lettera W 4 Van Gogh scrive: “L’arte – l’arte ufficiale – così come l’insegnamento, la guida e l’organizzazione, sono oggi paralitiche e marce come la religione, al cui crollo stiamo assistendo.”
Quanto appaiono rivoluzionarie queste parole ancora oggi?
Così rivoluzionarie da aprire alla “pittura non dipinta, la porta occulta di un aldilà possibile.”scrive ancora Artaud.
Quello che vedono i folli. Quello che vedeva Van Gogh. E, con lui, Artaud.