Se il nulla è l’opposto di qualcosa
allora anch’esso è qualcosa e non un nulla
o è solo il linguaggio che si affanna
a colmare il qualcosa che fa ritrarre l’intelletto?
Siamo noi non la natura ad aborrire il vuoto:
là nello spazio senza-attrito c’è ancora una frazione
più del nulla, se non abbastanza da rallentare
i pianeti nelle orbite.
Eppure la luna piena cela il suo vuoto
e ogni pienezza il suo contrario:
il presente si curva nell’assenza di un – ora
che dura per un – mai come una stella oscura
attira a sé grani di luce. Là il nulla esiste
accucciato come una sfinge tra i detriti.
Jamie McKendrick è un poeta inglese nato nel 1955 a Liverpool. Fu nominato uno dei “Poetry Society’s”, generazione di poeti del 1990. Fu traduttore appassionato e si avvicinò alla poesia sin da giovane: in un’intervista infatti egli racconta di aver capito già all’età di sedici anni di voler scrivere poesie. Dopo gli studi lavora per quattro anni all’Università di Salerno come lettore di inglese; racconta con molto piacere la sua esperienza nel sud Italia, dove fu accolto con gentilezza. Fece comunque numerosi viaggi per la sua formazione, prima di accettare il lavoro in Italia: andò in Spagna, in Svezia e in Repubblica Ceca. Nella stessa intervista egli sostiene di amare un’arte povera dicendo che il poeta non è “necessariamente un esperto di qualcosa, anzi non è preparato per affrontare molti aspetti della vita, come del resto un po’ tutti quanti, perché la società in cui viviamo non è stata costruita per noi, ci viene data, è lì. Non sto privilegiando il poeta, ma un poeta deve trarre qualcosa da questo, e quindi lavorare anche con i residui, dargli una forma”.
La poesia che oggi vi propongo appartiene alla raccolta “Sky Nails” (2000) e rappresenta una presa di coscienza di ciò che circonda l’essere umano, avvenuta attraverso un gioco quasi ironico tra le parole “something” e “nothing”. Il sottotitolo che l’autore sceglie già cala il lettore in un atmosfera alquanto enigmatica:
Non credo che sia assurdo dire che nulla sia qualcosa,
visto che nessuno può negare che nulla sia un nome. (Anselmo da Canterbury)
La poesia, infatti, si apre con una domanda: il nulla è solo un contenitore delle nostre idee e dei nostri pensieri, oppure è reale e concepibile come contrario di qualcosa? Il vuoto spaventa l’uomo, che si affanna nel cercare di definirlo continuamente, con sospiri, domande, urla, pensieri e suoni. Il nulla incute timore in quanto sconosciuto, ignoto e indefinibile logicamente; appare terribile perché non quantificabile, perché “là nello spazio senza-attrito c’è ancora una frazione / più del nulla” e può variare da un momento all’altro. “Eppure la luna piena cela il suo vuoto” perché scompare agli occhi dell’uomo, invece di trasformarsi, e ciò può essere inteso come metafora di un tesoro da scoprire che inseguiamo continuamente, all’interno e all’esterno di noi, per guadagnarci la nostra felicità.
Persino il tempo, infine, diventa timido ed ambiguo, nell’impossibilità di definire e stabilire un’ “ora” e un “mai” tra presente, passato e futuro. Il nulla diventa animale spaventoso, terribile e ride di noi che non riusciamo a vederlo, ride “accucciato come una sfinge tra i detriti”.