Fin dalle prime pagine di questo romanzo si intuisce che Città aperta di Teju Cole non descrive solo l’indefinitezza di una metropoli come New York, ma si presenta come un cangiante contenitore di esperienze sensoriali e visive. Non sono esattamente “riflessioni” quelle del protagonista errante nei paesaggi notturni della città, ma piuttosto “incanti”, momenti di lucida solitudine evocati con l’intenzione di sentirsi aggrappati al mondo, persi in una spirale di vita, anche se altrui.
Julius, giovane psichiatra di origini africane ed europee, preferisce soffermarsi sulle connessioni tra i luoghi e la loro Storia fugace invece che apprendere dalla vita presente che sta facendo il suo corso. Incontri e scontri per le vie cittadine sono l’occasione per riflettere sulle stragi di Idi Amin, sui lontani sbarchi degli europei ad Ellis Island dietro la Statua della Libertà; fermarsi sui resti del World Trade Center, sepolto sotto macerie di pensieri. Non è stato solo il simbolo newyorkese per eccellenza ad essere spazzato via, sotto di esso si celano altri substrati di Storia: il vecchio Washington market e il dedalo di stradine in fermento. Si stupisce davanti alle opere del Folk Art Museum dove casualmente avviene l’incontro con i dipinti di John Brewster e i suoi immobili ritratti di un mondo impenetrabile. Sia il pittore che i suoi soggetti infantili soffrivano di sordità e così si spiega la dimensione estranea in cui si collocano. Questo è solo uno dei tanti episodi che l’autore ci descrive, ritraendo una vita muta e silenziosa attraverso le meditazioni di Julius. Il suo contatto con il mondo e le città avviene sia attraverso i vivi, che guarda di sbieco in metropolitana e correre nella Sixth Avenue (ma con cui ha anche dei rapporti intellettuali, come avviene con il professor Saito), sia con i morti che con le loro tracce invisibili popolano la città.
Julius cerca la linea che collega la sua storia personale ai milioni di altre vicende che incrocia quotidianamente. È l’inconsapevole continuazione di un mondo che non conosce e che instancabile tenta di capire, con i suoi occhi africani, americani ed europei. Il narratore ci lascia concettualmente “fuori” dalle sue esperienze, accompagnandoci in un girovagare di storie e luoghi che è più contemplativo che esplicativo. Passato e vita privata sono appena accennati: riga dopo riga traspare il nostro protagonista, riluttante a parlare di sé. Ma emerge un abbozzo di passato, e scopriamo solo dopo alcuni capitoli che il suo arrivo a New York è stato dettato da una decisione repentina: a 17 anni, terminata l’accademia militare in Nigeria e maturata una certa intraprendenza e una buona dose di insensibilità, Julius riparte da zero iscrivendosi ad un college americano. Gli Stati Uniti, immensa e voluttuosa cornice di grandi eventi, troppo piccola e limitata per abbracciare un’identità che non trova né pace né appartenenza.
Il senso d’aspettativa di questo romanzo di Cole si smorza man mano che il racconto si distende tra le numerose situazioni che Julius incrocia durante il suo cammino. Potrebbe essere solo una storia di integrazione, razzismo o immigrazione, ma è in realtà molto di più: un’interconnessione tra continenti, modelli culturali e pregiudizi diffusi, un legame tra la Storia ufficiale del mondo e le sue intime testimonianze.
Sembrava che l’unico modo per evitare il richiamo della violenza fosse non aderire a nessuna causa, rimanere magnificamente isolati da qualsiasi alleanza. Ma non era un errore etico più grave della rabbia stessa?