«Mi presti la macchina stasera?»: era iniziato così il mio venerdì sera, con una telefonata di mio fratello. Il suo nome che lampeggiava sulle schermo del cellulare all’ora di cena era stato da subito eloquente. Non è tipo da chiamare per chiedermi come va e poi fare due chiacchiere. Non lo sono nemmeno io in realtà, per questo a quel nome che lampeggia rispondo sempre senza indugi.
«Mi presti la macchina? O devi uscire?»: chissà che aveva fatto della sua per chiedermi usare la mia 500 grigio imprevedibile, prevedibilmente molto sporca che, peraltro, lo contiene appena. «Tua, mi faccio passare a prendere. Faccio solo un giro stasera». Cinque minuti più tardi suonava il mio campanello con il cane al guinzaglio. Munita dei guanti di gomma rosa fluo con cui stavo lavando i piatti, gli lanciavo le chiavi, ricordandogli soltanto che alle 7 del mattino sarei dovuta andare al lavoro: «La metto nel cortile del negozio quando torno, la lascio aperta con le chiavi sul sedile». Il negozio è la forneria di mia mamma, io da un annetto vivo proprio lì sopra e in genere lascio la macchina nel suo cortile, tanto per evitare i controllatissimi parcheggi del centro. Mio fratello, con il cane e sì, anche i miei genitori, vive a tre minuti da qui.
Un’ora più tardi la mia amica passava a prendermi e alla 500 clamorosamente in pericolo non pensavo nemmeno più. Serata andata, a mezzanotte ero già a letto con tutta l’incapacità di intendere e di volere che immancabilmente mi assale non appena appoggio la test sul cuscino. Buio.
Sveglia al mattino, 5.15 e tutta la calma di questo mondo. Al mattino sono così: metto la sveglia prestissimo in modo da non iniziare la giornata di fretta. Dicono che sbaglio, dicono che dovrei dormire più, che dovrei alzarmi più tardi. Dicono che di tempo per riflettere durante la giornata ce n’è abbastanza e che il tempo rubato al sonno lo perdo poi in lucidità. Dicono molte cose riguardo le mie sveglie, ne dicono in molti e, in fondo, sono convinta abbiano tutti ragione. Il risultato però non cambia, ho bisogno dei miei tempi e per il momento va così. Quindi sveglia, bagno, stretching, di nuovo bagno, piastra che cade, mascara che sbava, colazione, kiwi che si insinua nel taglietto che ho sul pollice destro e mi fa lacrimare, di nuovo bagno, mascara che cola, colazione la vendetta, yogurt che fa la fine della piastra e atterra giusto sul maglione. Di nuovo bagno, lavare, cambiare. Caffè. Finalmente caffè e poi esco. Ora capite perché mi alzo presto? Non è premura, ma mettere le mani avanti. Io mi affronto così. Sveglio lui che si stira straziato e straziante, nutro il coniglio che in realtà era sveglio prima di me. E caffè. Sì il caffè viene ora. Lo verso e recupero libri, piumino e sciarpa mentre aspetto che raffreddi qualche secondo. Ora sì caffè. Spengo, chiudo, ciao, via.
Va da sé che, in questo mio intimo e quotidiano percorso vitae, alle 7 e poco di un mattino di febbraio, alla macchina ancora non avevo pensato. Non ci pensavo ancora scendendo le scale al freddo, con la sciarpa appena appoggiata che scivolava e minacciava di farmi inciampare, non ci pensavo cercando le chiavi di casa nel portachiavi di ferro battuto bianco con gli uccellini lavorati appeso di fianco alla porta, non ci pensavo infilandole nella toppa per aprire. Non ci pensavo nemmeno non trovando lì in giro quelle della macchina: le avrò in borsa, avevo pensato. Entro in negozio dal retro, saluto mia mamma e, mentre appoggio la borsa sul banco per cercare le chiavi, l’illuminazione. Pacca in testa e via: esco dalla porta laterale che da sul cortile per recuperare una macchina che, chiaramente, non c’è. Penso sia in strada allora: avrà trovato il portone chiuso e l’ha lasciata in strada, le chiavi a casa in bellavista sul tavolo e un bigliettino per spiegare alla mamma di portarle con sé. Come sono ottimista il sabato mattina, e come corrono veloci i miei pensieri.
«Mamma mi dai le chiavi della mia macchina?», chiedevo con tutta l’ingenuità di questo mondo mentre correvo dalla porta laterale del negozio a quella della vetrina, che da sulla strada. Non notando, soprattutto, il punto interrogativo disegnato sul volto volto della mia inconsapevole genitrice.
«Come quali chiavi? Come non le hai viste? Come sai solo che Ale è tornato dopo le 5? Come sarà davanti a casa? E le chiavi? Dove sono le chiavi?»: urlavo queste domande, un po’ a lei e un po’ a me, mentre ero già in strada e correvo verso casa, con la sciarpa che ancora penzolava e i libri che sembravano non pesare nemmeno più. Ed eccola. Davanti a casa, anzi un po’ più in là. Ecco che attraverso la strada, ecco che la raggiungo. Ecco, è chiusa.
Torno indietro, mi attacco al campanello. La speranza di svegliare il sonno pesante di papà fratello e cane ha la meglio sulla lucidità che mi avrebbe fatto desistere subito. La realtà fa il resto. Torno indietro, è già tardi. Rientro in negozio urlando. Mia mamma ancora non capisce, credo che tuttora le manchi qualche tassello. Cerco le sue chiavi di casa e poi, nel panico, ricordo che nel forno, in fondo al cortile, c’è una chiave di scorta per gli eventuali tetris quotidiani. Corro verso il forno, ancora urlando. Attraverso per la seconda volta in dieci minuti il negozio di corsa. La sciarpa ormai attenta alla mia vita. Corro ancora, dribblo anziani in bici e a piedi, il fruttivendolo, la barista, arrivo alla macchina ed è tardi. Tardissimo. Odio arrivare tardi al lavoro. Non arrivo mai tardi al lavoro. Anzi, arrivo sempre con un sacco di anticipo. Oggi invece arriverò tardi. E con che scusa? Ieri sera ho commesso un errore di fiducia e stamattina ho perso prima la macchina e poi le chiavi? Il cane mi ha mangiato i compiti? Certo. Arriverò in ritardo. Punto e basta.
Apro, salgo. Appoggio borsa e libri vicino a me. Inserisco la chiave di scorta, giro. Ho perso prima la macchina e poi le chiavi, ma vi sembra una scusa credibile? Meglio tacere. Meglio tacere, chinare il capo e addossarsi le colpe del ritardo. Ho perso la macchina, poi le chiavi. Poi ho trovato, la macchina, le chiavi, l’ho aperta, sono salita, ho acceso e non c’era benzina. Non si trattava di una semplice riserva: non c’era nemmeno l’ultima tacca arancio, quella che segna gli ultimissimi kilometri che il mezzo ti concede di affrontare per raggiungere un benzinaio. Non c’era niente.
Ora scendo. Scendo da qui e addio lavoro. Rinuncio. Salgo in casa e lo aggredisco. Lo sveglio, gli do una testata e lo tramortisco: lui ha i muscoli ma io ho la testa grossa. Molto grossa. E ora sono una furia. Sono una furia e come una furia parto, niente testate. Incrocio le dita a parto, con la remota speranza di arrivare almeno al benzinaio. E di avere con me il bancomat, non oso controllare.
I cinque minuti che mi separano dal benzinaio sembrano infiniti. Il traffico sembra lento, anche se è sabato mattina e – nonostante io sia già in ritardo – non sono ancora le 8. Con una rapidità che in genere non mi compete, mi avvicino alla prima tappa del mio viaggio, intravedo quella scritta bianca su rosso e già mi sembra di avercela fatta. La paura degli ultimi cinque minuti mi aveva fatto dimenticare la rabbia dei dieci precedenti. Mi avvicino, timorosa ma più rilassata. Freccia a destra, entro, raggiungo la pompa, abbasso radio e finestrino e mi fermo. Nell’attesa controllo, ho anche il bancomat. Attendo un attimo e torna la rabbia: faccio benzina e poi per strada chiamo a casa, inizio ad appuntare gli insulti nella mente. Deciso.
Si avvicina il benzinaio, un uomo sulla quarantina che una volta ogni dieci giorni di media, da qualche mese, il mattino presto riceve le mie chiavi con portachiavi a cagnolino e una richiesta di venti euro di benzina. Magari un sorriso. Non stamattina però. Stamattina la casa offre un «Mi fai venti?» corredato di «E perdona la bruttezza della chiave di scorta». Il benzinaio sorride e accetta sia le chiavi che l’invito al perdono. Si allontana, fa quel che deve e mentre i numeri scorrono si riaffaccia al finestrino ed esordisce: «ieri ti ho pensata». «Hai pensato a me?», mi stupisco. «Hai visto una macchina più sporca della mia e il confronto è risultato inevitabile?». Un po’ ironica e un po’ sincera, gestisco in questo modo il disagio in cui era sfociato il mio momento di rabbia. Ride, «no: ho letto una frase e ho pensato alla ragazza con la 500 che ogni tanto si ferma a fare benzina la mattina presto». «Una frase sulle teste grosse?». Ride ancora: «una giornata senza un sorriso è una giornata persa. L’ho letta e ho pensato a te, perché quando ti fermi a fare benzina, prima di ripartire mi auguri buon lavoro e sorridi». E così la rabbia, la paura, il disagio, mezz’ora di inferno in cui l’inferno me lo sono indubbiamente guadagnata, si trasformano all’improvviso in un due occhi lucidi che urlano «grazie, mi hai cambiato la giornata. Mi hai veramente cambiato la giornata. Buon lavoro».
Riprendo le chiavi, riaccendo la macchina, sto quasi per piangere, alzo la radio che sta pure passando gli Oasis. «Dont’t look back in anger». Dimenticala, la rabbia. Già. Sono quasi le 8, il sole sta spuntando e io arriverò in ritardo. Ma una giornata senza un sorriso è una giornata persa.
Già.