C’era una volta un tale.
Un omino in verità, niente di speciale, che viveva in una casetta sopra una collina ai margini di una città assai bella.
Splendida addirittura, carica di storia e di cultura, obesa di grandi monumenti e con un mare da fare invidia ai paradisi tropicali.
Il tizio si chiamava Gennarino, e anche questo non lo aiutava a primeggiare, da quelle parti ce ne erano a migliaia che si appellavano in tal modo. Il nostro aveva provato allora a farsi nomar Rino, ma presto, un po’ per abitudine, un po’ per la sciatteria tipica del posto, tutti avevan preso a chiamarlo Rì, e basta.
All’inizio un tantino gli era dispiaciuto, ma poi ci aveva fatto orecchio, e aveva continuato a fare la sua vita su e giù per vichi e fondaci della metropoli in questione.
Si deve sapere, orbene, che quello era un tempo strano. La gente comprava a tutto spiano, cambiava d’abbigliamento, di mobilia, di auto, di accessori e finanche – ebbene sì – di coniuge con la rapidità di un batter di ciglio, seguendo le mode e le paturnie.
E lui ne approfittava.
-Rì, mi chiamo, e se volete, faccio pulizia – diceva, presentandosi laddove il cambiamento produceva plusvalenze.
Della roba di cui faceva incetta, una parte la rivendeva traendoci di che campare avanti, ma la maggior porzione la conservava, la stipava, per meglio dire, nella sua dimora che presto ne fu colma fino a traboccare.
A dire il vero tratteneva per sé specialmente la masserizia che trovava affascinante. Tanto che passava ore a rimirarla.
Ci parlava, perfino, e quella, a un certo punto cominciò a rispondergli.
Un vecchio tavolo, ad esempio, in una notte che non riusciva a prender sonno, gli narrò dei banchetti luculliani delle feste e delle tazze dei bollenti caffellatte del mattino, che un po’ l’avevano bruciato.
La pudibonda specchiera di un comò, invece, gli raccontò degli amplessi furibondi del suo padrone con una donna che soltanto in seguito ella aveva scoperto – con grande disappunto – non esser sua moglie.
Ma più di tutte gli piacevano le sdraio.
Quelle in verità erano assai parche di parole, essendo, per natura loro, più portate alla riflessione. Stavano lì che guardavano il sole e meditavano, malinconiche. L’unico modo per trarle fuori dal loro straniamento era sedercisi e allora esse prendevano a cullarlo, dolci dolci.
-Molto meglio dell’abbraccio di una donna – pensava Rì, che sull’amore – sia detto tra di noi – aveva idee molto confuse, per non parlare del desiderio sessuale che puntualmente, dopo una giornata di traslochi, gli evaporava come neve al sole.
Eran passati, così, degli anni.
Parecchi, a dirla tutta, e Rì, solitario sul suo dosso, aveva visto tramontare più di un presidente, e la città cambiare.
Da morbida e accogliente, era diventata dura, più dell’acciaio.
A Rì, l’andazzo piaceva poco. La gente continuava a dismettere con grande frenesia, con certezza, ma le cose che lasciava erano mute.
Invano cercava di colloquiare, quelle rimanevan fredde, sprezzando ogni contatto, sembravano esser fatte con lo stampo, tutte rigide e impettite continuavano a farsi i fatti loro.
-Non ne vale più la pena, e poi mi son fatto vecchio – pensò allora Rì, e smise di fare il rigattiere e a riposare seduto – manco a dirlo – su una delle sue amate sdraio.
Avrebbe continuato così per sempre se non fosse stato per il consiglio comunale che un giorno decise di spianare la sua casetta.
-La città ha bisogno di nuovi insediamenti e poi quello spazio per lei solo, è sicuramente troppo! – gli disse il sindaco quando ci riuscì a parlare grazie all’intercessione di un politico di cui in passato aveva svuotato la cantina.
-Ma le mie cose, dove potrò metterle? – pregò Rì, in lacrime.
-È un bel problema, ne convengo – fece l’altro infastidito – però può sempre venderle e fare dei bei quattrini, che, si sa, fan sempre comodo, e a uno come lei, poi… – aggiunse squadrandolo da cima a fondo.
Rì magari non avrebbe potuto mai ambire a un Nobel, ma fin là ci arrivava, e capì che non gli rimaneva altro da fare.
Vendette tutto.
Tutto, tranne le sdraio.
Mentre la mobilia andava via, comprata da collezionisti e bon vivant, le sedie cominciarono a vibrare d’indignazione, sì, ma anche di orgoglio.
Per quanto di poca lingua, infatti, anche loro si erano affezionate alla compagnia e vedevano con rammarico allontanarsi amici e amiche con cui avevano condiviso così tanti anni. Al contempo, però, gonfiavano i vecchi teli per essere le prescelte.
Sul camion che le portava al nuovo domicilio, si riunirono in consiglio e presero una fondamentale determinazione: mai più.
Mai più Ri avrebbe dovuto subire una tale umiliazione.
Mai più loro stesse avrebbero subito un altro sfratto.
Nell’appartamento del sovraffollato condominio popolare si disposero in cerchio e, convocato il loro amico, esposero il piano progettato.
-Caro mio – fece la più anziana che aveva dimorato finanche a Cape d’Antibes prima di finire in uno scantinato – portaci in riva al mare e più non ti crucciare.
Ri si guardò in giro, annusò l’aria, drizzò le orecchie, insomma si mise in cerca. Di mare ce ne era ben poco, colpa dell’acciaio, di quella tentazione della città a farsi corazzata che aveva sporcato l’acqua e tolto l’anima alle cose di ogni giorno.
Fu difficile, ma alla fine la trovò.
Una spiaggetta più nera che gialla giù in periferia che giaceva abbandonata.
Chiese alla Capitaneria di Porto e la prese in concessione.
Grate, le sdraio si diedero da fare e presero a massaggiare tanto bene i suoi clienti, che quelli sparsero la voce e tutta, ma proprio tutta, la città cominciò ad andare su quel lido a farsi coccolare, a farsi sussurrare di varie amenità.
Ma gli ingegneri, i professori e, a rimorchio loro, gli immancabili politici, insorsero con determinazione fiera.
-Non si ha da fare, – urlarono assatanati – c’è una guerra in corso e chi si ritira, di codardia si macchia!
Ohibò, rifletté Rì, che non sia mai detto che mi macchi di viltà di fronte alla patria tutta, e stava per rispolverare il moschetto del servizio militare, quando gli spiegarono che trattavasi soltanto di guerra commerciale.
-Il Paese combatte in so qual mercato per la supremazia, ed io sinceramente duro fatica a fare il guastatore – disse all’assemblea delle sue socie – Se volete, restate pure, io vado via, lontano, a godermi la pensione. Magari in Giappone dove hanno un rispetto sacro per la tradizione.
Le sedie allora rimasero sole. Tentarono l’autogestione, ma molto presto la propaganda avversa le seppellì sotto una serie di orrende contumelie che allontanarono il pubblico pagante, costringendole a dichiarare fallimento.
-Non può finir così, maledizione – disse una di loro l’ultima sera, prima di chiudere i battenti – moriremo, è vero, ma non senza un’ultima dimostrazione.
E furono fulmini e furono saette, soprattutto furono proposte di atti se non eroici quantomeno esplicativi e alla fine si giunse a fatal determinazione.
Tutte insieme si schierarono a favore del vento di ponente volando via al primo soffio. Meglio morire consumate dai pesci e dalla salsedine marina, piuttosto che divorate dalla muffa in qualche oscuro seminterrato.
Il mattino dopo i pochi spettatori che si erano recati ad assistere allo sfratto non trovarono altro che sei sedie smandrappate che forse non gliel’avevano fatta a decollare.
Erano delle più diverse latitudini ed esperienze.
La prima aveva militato in una cooperativa a Rimini; un’altra era appartenuta a un malfamato bar di Quarto Oggiaro; la terza si era stinta al sole di un comunardo lido di Livorno; sulla quarta aveva riposato le chiappe stanche un venditore di souvenir a Firenze; la quinta era stata di un emigrante cagliaritano che per sentirsi meno solo ci aveva fatto stampare il nome della sua città natale, della sesta si sapeva che era di Reggio Calabria, e nulla più.
Stavano lì strette l’una all’altra con i teli talmente malridotti che a stento se ne leggevano le insegne.
I più volenterosi non riuscirono a mettere insieme che poche lettere ma i più avvertiti ci lessero un messaggio.
Una parola, al massimo, e dal suono strano: RIQUALIFICARE.