La professoressa sta parlando già da mezz’ora e questa lezione sembra infinita. Guardo le sue labbra aprirsi e chiudersi, ma non mi sforzo nemmeno di provare a decifrare i suoni che ne escono. Spero che quella vecchiaccia non creda davvero che la stiamo ascoltando! L’unico che presta attenzione alle sue parole è Luca, il secchione della classe: continua a fissarla bevendosi ogni sua parola, ipnotizzato da quella voce che per me è solo soporifera.
Che sfigato, Luca. È uno di quelli con gli occhiali spessi un dito e lo sguardo rivolto sempre verso il basso, per terra o su uno dei suoi maledetti libri. Non parla mai, ma questo non mi aiuta quando voglio stuzzicarlo o tirargli dietro qualche aereo di carta con su scritto “tu puzzi”: sarebbe più facile odiare un saccente, uno che cerca sempre di mostrare al mondo di essere più intelligente dei suoi coetanei. Luca, invece, se ne sta sempre zitto.
“Ragazzi, ho corretto e riportato i riassunti dei libri che vi avevo detto di leggere”. La professoressa ci fissa a lungo uno ad uno da sopra gli occhialetti da presbite. “Mi dispiace, ma non ho messo voto a nessuno di voi, fatta eccezione per Luca”.Tutti mormorano. Luca non sembra contento, anzi, arrossisce violentemente ed ha la faccia di uno che spera di sprofondare al piano di sotto con sedia e banco inclusi. È proprio difficile farselo stare antipatico, devo ammetterlo.
La professoressa continua: “Anche se sono di un bel po’ di anni più anziana di voi, so usare internet. E… conosco Wikipedia. Se mettessi insieme in un solo volume tutti i vostri riassunti, potrei pubblicarne un’edizione cartacea. Avete copiato da lì, solo da lì. Tutti”.
Nessuno osa parlare, certe ragazze cominciano a tremare o a giocherellare imbarazzate con i capelli, temono che le loro madri possano venire a sapere che hanno imbrogliato. Bambine! Io, che in fin dei conti ho dodici anni come loro, sono già libero dalla morsa dei miei genitori e so cavarmela benissimo da solo. Non ho bisogno di mamma che mi fa la predica perché non ho fatto i compiti.
La professoressa se la sta prendendo davvero troppo: ha cominciato a blaterare di correttezza, del fatto che la sua non era una punizione, perché leggere è bello e noi che siamo ancora in seconda media dovremmo approfittare del tanto tempo libero che abbiamo proprio per dedicarci a questo hobby.
Non posso fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorrisetto. Lei lo nota e, posando i suoi occhi su di me, mi domanda: “Allora, Matteo, ti faccio ridere?”.
È infuriata. I miei compagni posano gli occhi su di me, poi su di lei, aspettano che succeda qualcosa. Anche se una parte di me mi suggerisce di scuotere la testa e ritornare a farmi gli affari miei, magari rispondere ad Alice e Teresa che mi hanno scritto su whatsapp e aspettano una risposta ormai da dieci minuti. Però sono al centro della scena, non posso perdere un’occasione del genere.
“No, non mi fa ridere lei, prof. Però… perché continua ad insistere con questa storia che leggere è bello? Per lei forse lo è perché quando aveva la nostra età non esisteva nemmeno la televisione”, dopo questa frase vedo il suo viso farsi porpora, “e quindi l’unica cosa che poteva fare era leggere, ma noi… beh, noi che siamo ora in seconda media abbiamo altri interessi. Abbiamo la tele, lo smartphone, internet e, se proprio uno vuole spostarsi da casa, il cinema. Me lo spieghi lei, che senso ha metterci settimane per leggere un libro quando basta digitarne il titolo sulla barra di ricerca di Google e in cinque minuti scopro di che cosa parla e come finisce?”.
La professoressa mi fissa a bocca spalancata. L’ho spenta proprio, sembra incapace di spiccicare una parola. Mi aspetto che ribatta, che mi metta una nota o che perlomeno mi sbatta fuori dalla porta, così almeno mi faccio un giro per i corridoi. La guardo con l’aria più strafottente di cui sono capace, ma lei ricambia lo sguardo con un’espressione… triste?
Scuote la testa per un attimo, poi si risiede alla cattedra e chiama Luca perché venga a riprendersi il riassunto del libro corretto, l’unico che lei riconsegna.
Provo un certo disappunto, a dire la verità. Non mi era mai capitato di fallire nel tentativo di irritare un insegnante. Di solito se la prendono davvero tanto, mi sbattono fuori o cominciano a gridare che sono un maleducato e che dovrei vergognarmi. In altre parole, vinco sempre io. Stavolta invece mi sento un perdente: la professoressa non ha nemmeno reagito alle mie parole, davanti al mio sguardo arrogante si è limitata a scuotere la testa.
Dopo venti minuti suona la campanella che segna la fine delle lezioni e tutti si alzano per precipitarsi alla porta. Mi alzo anche io e, quando mi ritrovo accanto accanto alla cattedra, sento la mano della professoressa prendermi un braccio. La guardo interrogativamente e lei mi ordina: “Rimani qui un attimo, Matteo”.
Non ci tengo proprio, ma credo di non avere molta scelta: se non mi fermo oggi sarà domani, che differenza fa? La guardo diffidente e rimango di fronte a lei. Aspetto la predica, una paternale infinita, che però significherebbe solo che anche questa volta ho vinto io, non lei. La professoressa, però, non dice nulla e tira fuori da un cassetto un libro più sottile che spesso, con la copertina e le pagine decisamente ingiallite. Me lo porge ed io lo afferro sospettosamente: il titolo che capeggia a caratteri neri sulla copertina è L’isola del tesoro.
Il suo mutismo è eloquente ed io intuisco che vuole che io lo legga. Illusa. Io però ho fretta di andarmene, quindi lo infilo lo stesso nello zaino, le rivolgo un breve cenno di saluto con la testa e poi me ne vado. Chissene, tanto non lo guarderò nemmeno di striscio. Rimarrà sul fondo della mia cartella di scuola ad ammuffire ancora più di quanto non lo abbia fatto già.
“Ciao”, saluto seccamente entrando in casa. Parlo da solo, però, perché né i miei genitori né mio fratello Vittorio sono a casa. Mia madre mi ha lasciato un biglietto sopra al tavolo: ciao Matteo, sono andata in palestra e dopo mi fermo a casa di Viviana a bere un caffè. Se hai fame c’è un contenitore di alluminio con delle lasagne in freezer, se vuoi altro devi arrangiarti. A dopo.
Alzo gli occhi al cielo: sono tre giorni che mangio solo lasagne. Fa sempre così, lei: ogni settimana prepara una quantità gigantesca di qualcosa, lo taglia a pezzi e lo congela, così io sono obbligato ad imparare a cucinare se non voglio farmi venire a nausea lasagne, pizza o cotolette impanate. L’alternativa sarebbe pranzare per parecchi giorni consecutivi mangiando sempre la stessa cosa.
Non ho voglia di cucinare, però, oggi. Scongelo svogliatamente il pasticcio e, anche se l’odore di besciamella e ragù sta cominciando a darmi un certo fastidio allo stomaco, mi siedo davanti alla televisione a mangiarlo, mandandolo giù con lunghe sorsate di coca cola. Ogni tanti a pranzo mi concedo una birra, ma solo quando sono sicuro che papà non possa accorgersene: se succedesse, tanto vale andare subito a comprare la pomata per i lividi.
A cena, per fortuna, niente lasagne. Ci sono braciole ai ferri e verdure grigliate, che non mi piacciono ma che accolgo con gioia dopo quattro giorni di ragù e besciamella.
Mia madre e mio padre stanno litigando, come al solito. Si gridano addosso sempre le stesse cose, mentre Marco, mio fratello, comincia già ad avere le lacrime agli occhi. Quando arriva a coprirsi le orecchie con le mani, capisco che la bomba sta per scoppiare: mando giù il resto della cena in due bocconi e vado a rifugiarmi in camera per scappare da questo casino.
Ce l’ho fatta, finalmente, sono solo. Mi stendo sul letto ed infilo le cuffiette per ascoltare musica ed estraniarmi totalmente dal resto del mondo. Bastano venti minuti e sprofondo nel sonno.
È Marco a svegliarmi meno di mezz’ora dopo. Quando apro gli occhi lo vedo rivolgermi un sorriso sdentato: ha otto anni, l’età in cui la fatina dei denti fa affari d’oro. Vorrei scacciarlo via, ma poi mi ritorna alla mente la scena in cui si copre le orecchie per non sentire le grida dei nostri genitori. Va be’, per una sera posso anche sopportarlo.
“Matteo, mi aiuti ad addormentarmi?”.
Lo guardo di sbieco: che vuol dire? Glielo chiedo.
“Mi leggi una storia? La nonna lo fa sempre quando vado da lei”.
“Che storia vuoi che ti legga? In questa casa ci sono solo libri per grandi, non posso leggerti quelli. E di fiabe io non ne conosco nessuna”.
“Leggimi questo!”, esclama mio fratello porgendomi un libro dalle pagine ingiallite. Lo riconosco: è quello che la professoressa di italiano mi ha dato stamattina. “Per piacere! Questo non è un libro da grandi, l’ho trovato nel tuo zaino di scuola!”.
Gli strappo il volume dalle mani e sibilo: “Tu non devi mettere mani nelle mie cose, capito?”.
Lui si allontana un poco da me, guardandomi con gli occhi lucidi. No, non di nuovo, per favore.
“E va bene, dai, mettiti a letto. Solo dieci minuti però, d’accordo?”.
Marco mi rivolge di nuovo un euforico sorriso sdentato e corre a mettersi il pigiama. Dopo qualche minuto sono seduto accanto a lui sul letto: apro la prima pagina del libro e comincio a leggere:
“Sollecitato dal conte Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata di scrivere la storia della nostra avventura all’Isola del Tesoro…”.
Marco mi ascolta rapito, ma nonostante la storia sia avvincente, si addormenta dopo un paio di pagine. Io però me ne accorgo tardi e continuo a leggere ad alta voce da solo. Solo dopo essere arrivato al secondo capitolo, mi accorgo che mio fratello è crollato dal sonno.
Gli sfioro i capelli e mi viene in mente che anche mamma mi leggeva le storie, quando ero piccolo. Non volevo andare a dormire, se prima lei non mi raccontava per la centesima volta la storia di Pinocchio o Peter Pan. Ricordo il profumo dei suoi maglioni che sapevano di lavanda e dei suoi capelli che le scendevano lunghi quasi fino alla vita. Era tanto bella, mamma.
Ormai sono già arrivato al secondo capitolo, non posso mollare il libro così. Mi stendo sul letto, accendo la piccola abat jour sul comodino e, disteso su un fianco, comincio a leggere.
Non lo so di quante pagine sono andato avanti. So solo che quando mi sveglio, mi ritrovo con il libro tra le braccia, come se stessi stringendo un orsetto di peluche. Ancora intontito dalla notte di sonno, dico a me stesso che forse dovrei riportare il romanzo alla professoressa, oggi.
Ma no, dai. Ormai finisco di leggerlo.