Questo romanzo “non Maigret” (L’uomo che guardava passare i treni) di Georges Simenon si presenta come un’evocazione dell’infazia registrata meccanicamente più che una consapevole narrazione di eventi. Fin da piccolo Louis Cuchas parla di rado e si nasconde tra le ombre del suo mondo accogliente composto da una grande stufa, buchi nelle lenzuola e un’unica grande porta che si apre sullo stanzone e che lo fa sentire protetto e al sicuro. Il circolo magico in cui si dipana la sua vita è rue Mouffetard, scorcio di una Parigi d’inizio Novecento luminosa e vivace, povera e invivibile. Il minore della famiglia passa in rassegna minuziosamente i fratelli più grandi: Joseph, detto Vladimir per le supposte origini russe del padre, cupo e scontroso, destinato ad intraprendere affari loschi; Alice, vittima delle pretese del più grande; i gemelli, inseparabili e selvatici, detti “rossi malpelo”; la neonata Emilie ed infine la madre Gabrielle, venditrice ambulante di ortaggi che non sta stare senza un uomo nel letto. Le scene scabrose a cui Louis è sottoposto durante la sua infanzia non lo turbano o sconvolgono, egli manterrà il suo candore anche di fronte agli sconvolgimenti della guerra. L’angioletto o Petit Saint, come vuole il titolo originale, è il soprannome che gli viene affibbiato nel pieno dell’infanzia, quando i compagni non mancano di schernirlo e tormentarlo per la sua natura docile. Indifferente, contempla gli altri agitarsi. Immobile incassa ogni colpo.
Scrive Simenon di quest’opera:
Per la prima volta in vita mia sono riuscito a scrivere un romanzo il cui protagonista è assolutamente sereno, a diretto contatto con la natura e con ciò che lo circonda.
È proprio la serenità e l’ottimismo più sincero che abbracciano questa storia, declinata in una sorta d’indifferenza per le vicende del mondo e della famiglia. Anche di fronte alle disgrazie Louis non perde la sua aria trasognata, intento com’è ad osservare gli altri con distacco. I suoi parenti si affannano, si cacciano nei guai, si ammalano, si intristiscono e gioiscono. Il suo raggio di analisi del mondo si amplia quando inizia ad accompagnare la madre a les Halles nelle tarde nottate parigine. È da quel momento che coglie il vortice di nomi e persone intorno a lui, la consistenza e l’odore delle verdure accatastate sui banchi, il girovagare dei commercianti e dei clienti, il brusio sommesso della notte che diventa cicaleccio mattutino. Frequentando l’ambiente, Louis trova lavoro presso il deposito di Samuel e la sua occupazione diventa quella di scorrazzare per la città addormentata recapitando messaggi e note d’acquisto.
Un vero e proprio guizzo vitale gli brilla sul volto solo quando desidera intensamente qualcosa per la prima volta: dipingere. Dal cartolaio Suard (che diventerà poi gallerista e commerciante delle sue opere) scopre un mondo di tubetti e tinte brillanti, tutto ad un tratto desiderabili più d’ogni altra cosa al mondo.
Louis non osava crederci eppure ormai viveva solo per questo, come se gli anni trascorsi fossero stati solo un tirocinio segreto.
Si dedicherà totalmente alla pittura solo dopo aver incontrato un ex amante della madre, lo scultore ceco Pliska, sistemato in una grande mansarda circondato dalle sue opere. Presto Louis si trasferirà in rue de l’Abbé de l’Épée in una stanza simile, con una grande finestra a vetrata sulla città. La sua Arte non nasce da una pretesa intellettuale sul mondo, ma da un contatto diretto con la realtà ch’egli reputa pura e che con colori puri vuole rappresentare.
L’angioletto racconta la genesi imprevedibile di un grande artista che muoveva, fin da giovanissimo, il suo corpo minuto tra le le vie di Parigi collezionando immagini su immagini, il grande repertorio di una vita intera. Il suo sguardo smaliziato si posava su ogni cosa:
Non si burlava di loro, non li trovava ridicoli. In tutta la sua vita non aveva trovato niente di ridicolo e niente che non meritasse di essere guardato con interesse.