È una sera come tante altre: indefinita, non ha data, non ha nome.
La luna brilla pallida nel cielo. Alta e rotonda, sembra una macchia di latte distesa su una superficie nera ed infinita.
Si ode da lontano il cicaleccio della natura, il latrare di un cane e le macchine attraversare la strada ad una velocità irreale.
Penso, non so bene a cosa. Come un film che si inceppa e che viene sostituito da un’altra pellicola, come due stazioni radio che si confondono nell’immobile silenzio dell’abitacolo di un’automobile, i pensieri si susseguono l’un l’altro. Alcuni, più forti, calpestano gli altri, guadagnano terreno e mi rendono cosciente del flusso dei miei timori, delle mie idee, delle mie domande, che inarrestabili come una cascata mi impedisce di dominare la mia mente e di non pensare.
Un sentore di pino attraversa le mie narici e improvvisamente il paesaggio circostante si veste di fiori e di disperazione. La natura, tutta questa concatenazione di tonalità scure, lugubri – le montagne ridotte ad un’estesa ombra nera, gli alberi dalle foglie avvolgenti come lunghi momenti di sconforto, il manto stellato privo di confini, un buco nero che ti invita ad immergerti nell’oscurità – si è vestita di nero. Anche stavolta, come ogni notte.
Tutto sembra pronto per la celebrazione di un funerale, da anni sempre lo stesso.
Non passa una nottata senza che io non esca in balcone – che sia estate o inverno poco importa – ed in silenzio diriga i miei ricordi alla tua assenza.
Senza che tu sia morto, tutte le sere che mi siedo su questa sedia bianca di plastica, apro il funerale della mia libertà. Come se avessi il corpo legato da pesanti catene, il mio destino è quello di morire pensando che non ti ho più. E non posso impedirlo: è più forte di me. Sembra lo spaventoso effetto di un sortilegio.
Sono passati anni da quel pomeriggio invernale: sento ancora sulla faccia l’aria gelida che tirava e basta ricordare un singolo dettaglio perché, come un mosaico che si autocompone, la remota realtà nella quale la mia memoria è ancora intrappolata si costruisca da sola.
Mi basta riaccendere il ricordo della tua voce – anche se, credimi, è difficile udirla nella mia testa con immediatezza – per risalire al colore dei tuoi occhi, all’imponenza della tua figura, alle tue smorfie di disappunto o all’incresparsi delle tue labbra formando un sorriso. Al piccolo nero sotto il tuo occhio destro.
A volte ci vuole un po’ per farlo ma nessuno mi corre dietro: tutto è qui pronto, aspetta solo che la mia anima si trascini indietro nel tempo.
Sono rare le volte in cui mi perdo in questo viaggio di ricordi, talmente ogni singola tappa sia come marchiata a fuoco nelle mie reminiscenze. È come stringere in mano una dettagliatissima mappa, come la sicurezza di un bambino di conoscere la strada di casa.
Quando perdiamo qualcuno la disperazione è assoluta: che questa persona sia morta, che ci abbia abbandonata, che si sia smarrita nell’autodistruzione o che si sia tolta la vita è soltanto un tristissimo dettaglio. La verità è che di fronte ad una perdita reagiamo tutti nello stesso modo. Dapprima non crediamo a questa scomparsa, poi, man mano che prendiamo coscienza della situazione, cominciamo a colpevolizzarci e a ripercorrere le diverse tappe della nostra vita accanto a chi non c’è più.
Lentamente si accetta a malincuore la propria solitudine, poi ci si appiglia a qualunque cosa che possa tenere accesi i ricordi. Fotografie, lettere, bigliettini, videocassette.
Per quanto riguarda me, ho sempre amato scrivere. La semplice azione di impugnare una penna, aprire un taccuino, oppure accendere il computer, annotare labili pensieri su fazzoletti di carta o sul retro di biglietti da visita mi ha sempre fatto bene.
Non appena ho realizzato che la tua assenza gravava sulle mie spalle come un peso insostenibile, destinato prima o poi a schiacciarmi, ho subito deciso di incollare i cocci della nostra storia perché non venissero dispersi. Ed eccoli qui, stretti stretti tra le mie mani.
Lettere, annotazioni, pensieri intimi e dolorosi raccolti tutti in questa pila di fogli ormai ingialliti, rilegati alla bell’e meglio, che rileggo ogni sera.
Non ho mai trovato ridicolo il gesto di commuovermi di fronte a queste parole. So benissimo che ci sono casi più disperati del mio, che la fine di una storia d’amore non è certo la fine del mondo. Ma nella piramide di tutte le brutture che ho vissuto finora, sebbene sia passato diverso tempo dal nostro addio, la ferita brucia ancora, più di tutte le altre.
Forse è il dispiacere più grande che io abbia mai provato.
Apro il libro: è un’azione così quotidiana. Se non succedesse anche soltanto una volta, penso mi verrebbe a mancare profondamente. Come un bicchiere d’acqua dopo una lunga camminata o un lungo sospiro di sollievo quando realizzo che tu, da qualche parte dentro di me, ancora ci sei.
Respiro a pieni polmoni e mi lascio abbracciare dall’aria che spira, mentre sembra che tutto attenda solamente che io cominci a leggere.
Ed io non mi faccio aspettare.