Potrei stavolta scrivere una recensione brevissima: leggetelo, vi prego. Basterebbe credo già a dare il senso di quel che penso e provo adesso, ad un paio di giorni da quando ho letto l’ultima pagina di “Come fossi solo” dell’esordiente, sottolineo esordiente, Marco Magini. Amo leggere, amo i libri e amo le storie, mi infervoro quando mi capita tra le mani qualcosa che credo valga davvero la pena di essere letto, comincio a consigliarlo a chiunque, soprattutto a chi non m’ha chiesto assolutamente consiglio: divento molesta. Ma come frenarmi stavolta?
Ero alle medie durante il conflitto Jugoslavo, avevo una professoressa con un figlio obiettore di coscienza che si trovava lì, ne parlammo tanto, ma ero poco più che una bambina, e quel conflitto ad un certo punto è diventato solo un vago ricordo. Magini era più piccolo di me ma, si vede, ne è stato più colpito, chissà se per caso ha letto qualcosa che gli ha acceso una scintilla, e ne ha scritto. Dalla sua penna, sono nati tre personaggi, due inventati uno no: Dirk, olandese soldato Onu, Romeo Gonzales, spagnolo giudice internazionale, e Dražen, mezzosangue soldato per bisogno. La storia narrata in prima persona dai tre ruota attorno al terribile massacro di Srebrenica. Parrebbe ovvio quindi rintracciare tre punti di vista, completamente diversi visti i ruoli; non direi questo invece. Quello che accomuna tre uomini diversi per provenienza, estrazione ed età è l’impotenza. Per rimanere innocenti a Srebrenica dovevi morire, fa dire ad uno dei suoi personaggi Magini, e questo pensiero si estende anche al dopo, al momento dei giudizi, è impossibile avere a che fare con un genocidio ed uscire “puliti” da quell’esperienza, si rivestisse anche il ruolo di giudice. Questi uomini, sono tutti uomini, non hanno scampo, o scelta, o possibilità. Gli stupri, il sangue, la pulizia etnica non danno scampo e lordano, insozzano l’anima in modo indelebile. E paga chi riconosce la propria colpa, non può fare altrimenti.
“Come fossi solo” ha ricevuto la menzione speciale del Premio Italo Calvino. C’è un momento preciso in cui questo libro mi è entrato sotto la pelle dandomi la sicurezza che non lo dimenticherò, che saprò raccontarne il contenuto tra anni, che non svanirà nei miei ricordi come hanno fatto altri. Quel momento è stata la comparsa sulla pagina della frase che dà il titolo al libro, come fossi solo… Non esiste magari un video della giuria del Calvino che riprenda mentre i membri leggevano quella frase? È un boato quel momento, è grandezza, è un ricongiungersi, un esplorare la miseria dell’uomo dinanzi all’ordine illegittimo, come nella Germania nazista, come in Ruanda, come in Cambogia e in tutte le circostanze in cui la coscienza si spegne per dare spazio all’istinto di sopravvivenza, ma non crediate succeda solo al soldato mezzosangue. È colpevole al par suo il soldato Onu che si volta dall’altra parte: non era forse illegittimo l’atteggiamento internazionale che impediva che quegli uomini potessero intervenire, fermare quel coltello sulla gola del bambino, impedire lo stupro di una donna, e due e tre? La frase di Edmund Burke “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione” l’avremo sentita ripetere all’infinito, eppure come potremmo dirlo con parole altrettanto utili? Magini lo fa, e lo fa in modo straordinario, perché racconta esattamente quella rinuncia. Il libro si divora, la storia no, e stile e narrazione fanno a pugni nel senso migliore possibile. Tanto ben scritto quanto doloroso.
Marco Magini dunque, nessuna simpatia a pelle e sfido: leggete la biografia, la fascetta, la quarta di copertina, penserete qualcosa alla Troisi ma questo proprio vicino a me doveva abitare, poi arriverete alla fine del libro e vorrete il suo numero di casa, di cellulare, una mail, vorrete che vi racconti, lo vorrete come amico, come fidanzato, e soprattutto vorrete che scriva un altro libro.
Piccola notazione che deriva dal fatto che adoro i ringraziamenti nei libri: chi è Mario?