Lavoravo in quel bar da un paio di mesi, da fine estate. Era una sera di metà ottobre, era giovedì. Non chiudevamo tardi il giovedì, l’una al massimo e le luci si spegnevano. Anche prima. Quella sera però non se ne andavano: seduti sotto il gazebo con due birre medie che sembravano non finire mai, quei due stavano lì a chiacchierare. Dentro tutto era pulito, sistemato e pronto per il mattino seguente. I due però non capivano, non coglievano: forse semplicemente se ne fregavano. «Non possiamo chiudere se non ve ne andate, siamo qui ferme a lanciarvi sguardi di sfida da mezz’ora, ma non possiamo chiudere finché non ci restituite quei bicchieri»: avremmo voluto che leggessero nei nostri occhi, ma niente. Certo non potevamo invitarli con le parole. Stanche entrambe, al trotto dalle 20 io e dall’aperitivo lei – sì perché, lavorando al bar, ho scoperto che c’è gente che gli aperitivi gli inizia il giovedì, o anche il lunedì. Dopo una giornata lunga, come per tutti. Lei il mattino dopo avrebbe riaperto il bar alle 7, io a quell’ora sarei stata in procinto di prendere il treno per andare in università. Ai due là fuori, probabilmente si prospettava qualche ora di sonno in più. Forse no, ma di tornare a casa non se la sentivano proprio. Noi sì, noi eravamo stanche. Stanche, stanche della giornata e anche in prospettiva, stanche di stare insieme. Non ci eravamo piaciute fin dal primo incontro, non so spiegare il perché. Ripensandoci ora anzi, forse lo so. Lo so per certo. Insicurezza. La mia, la sua. Insicurezza, ognuno la gestisce a modo suo: c’è chi si scusa troppo e chi aggredisce per nulla. Lei aggrediva. Aggrediva i clienti, aggrediva noi. Quella sera mia aveva aggredito tre o quattro volte: l’idea di una delle ultime sere dalle temperature sopportabili, per fortuna, aveva riempito il bar di clienti dandoci poco spazio e tempo per interagire. Io chiedevo sempre scusa, lo faccio ancora. Con le persone aggressive non mi sono mai saputa relazionare. Mi inibisco, mi spavento, balbetto. Piango. Avrei pianto anche quella sera, poco più tardi.
Non se ne andavano, mancavano solo quei due bicchieri. Si sarebbero potuti fermare fino all’alba, alla colazione, lì sotto al gazebo a chiacchierare. Ma i bicchieri dovevano rientrare. Ero quasi tentata di uscire e barattarli con due birre in bottiglia. «Offre la casa: no, offro io. Vi regalo un’ora del mio stipendio, ma ridatemi quei bicchieri. Vi prego». Esco, io esco. Ho freddo, ma esco. Forse vedendomi si ricordano di noi due che stiamo dentro. Forse, improvvisamente illuminati dalle mie occhiaie, capiranno che è ora di andare. Almeno per noi. Esco, prendo un posacenere pulito e mi avvicino con la scusa di cambiarlo. Raccolgo tutta la grazia e la gentilezza che mi sono rimaste e fingo di voler fare qualcosa di carino. Carino. Carini lo sono loro invece: «allora come ti trovi?». Sono clienti abituali del bar, li vedo sempre qui la sera. Lavoro solo un paio di sere a settimana, tre al massimo. Quando c’è più gente, nel weekend. Quei due però mancano raramente: li saluto, domande di cortesia e risposte ugualmente cortesi. Non sono nemmeno sicura dei loro nomi: ora però mi chiedono come va il lavoro al bar, vogliono chiacchierare ancora, anche con me. E allora cedo, in fondo hanno solo voglia di chiacchierare. Forse a casa non li aspetta nessuno, forse sono arrabbiati o tristi. Forse sono più stanchi di me. Forse hanno lavorato fino a due ore prima e domattina si sveglieranno prima di me. Chi sono io per giudicarli? Chi sono per cacciarli? Chi sono per rispondere male, per non rispondere, per essere scortese? Veramente, chi sono? Mi lascio andare, tentata di scusarmi di nuovo, rispondo a due sorrisi con un sorriso. Stringo il posacenere e racconto che mi trovo bene, che mi piace stare con la gente e che sì, lavorare la sera è stancante, ma a volte essere costretti sorridere fuori ti fa sorridere anche dentro. Mi fermo cinque minuti, non di più. Resta il fatto che io ho freddo e resta il fatto che sono stanca. Forse lo sottolineo pure, tanto che concludono: «finiamo la birra e andiamo, vorrete anche chiudere e qui siamo rimasti solo noi». Forse, sempre forse. Forse non se ne erano nemmeno accorti, coinvolti dalla discussione. Che stupida sono stata. Che stupide siamo state. Rientro, col mio posacenere sporco in mano e ancora mezzo sorriso. Sono pronta a riferirle dei miei ultimi cinque minuti, a spiegarle, a regalare anche a lei un sorriso stanco. Certo non siamo due che si confidano, ma cerco il suo sguardo per spiegarle che non se n’erano resi conto, che ora comunque finiscono e se ne vanno, che in fondo sono carini. Il suo sguardo trova il mio prima che possa accadere il contrario, non sorride: «tra poche ore devo aprire il bar e tu anziché aiutarmi a mandarli via ti fermi a chiacchierare? E io qui a pulire? Cosa doverei dire? E adesso? Riferirò tutto e quest’ora non te la pago. Sei lenta, già sei lenta e devo continuare a correggerti, ora poi ti fermi anche a chiacchierare». Cerco di rispondere, di farle notare che non sono miei amici, sono clienti e siamo tenute ad essere gentili con loro. Cerco di parlare, di spiegare, non riesco. Parla lei, urla lei, «spiegami perché devo lavorare per te». Urla lei, mentre fruga in un cassetto, lo sbatte, cerca chissà cosa. La raggiungo, le passo accanto per prendere borsa e giacca e andarmene. Guardo per terra per non mostrarle che ho gli occhi lucidi, che sto già per piangere. Ho ancora il posacenere in mano, «non sai fare niente e rallenti solo il lavoro, e i bicchieri? Sono ancora sporchi, ora dovrò rilavarli». Urla con un bicchiere in mano, uno di quello piccoli che usiamo per gli amari. Lo brandisce mentre urla, è pulito. Vi giuro che è pulito. Lo sto guardando mentre lo stringe ed è pulito. Io stringo il posacenere sporco invece, ancora. Si volta per metterlo nel lavandino, ne prende altri dalla pila dei bicchieri puliti e continua. Li sposta tutti, mentre urla senza nemmeno guardarmi. Io alzo la testa, la fisso mentre urla, alzo le braccia, lo alzo sopra di lei, sopra la sua testa. Poi lo lascio cadere: no, lo accompagno. Lo scaglio con tutta la forza che ho, in queste braccia che faticano a portare un vassoio pieno. Lo scaglio con una forza che in realtà non mi appartiene, come quella che trovano le madri nel pericolo dei loro piccoli, come l’amore, come il suo contrario. Come l’odio. Non credevo di poter odiare qualcuno, non l’avrei mai creduto. Non la odiavo, forse. Non la odiavo perché vedevo l’insicurezza dietro la sua rabbia. Non la odiavo, ma l’ho uccisa. L’ho uccisa per rabbia, perché urlava. Non potevo parlare, non potevo spiegare, allora l’ho uccisa. È caduta subito, lì dietro il bancone, con un bicchiere da amaro in mano. Un bicchiere pulito, anche se lei lo vedeva sporco. Poi il sangue. Ora sì che ci sarebbe stato da pulire.
L’ho guardata per qualche secondo, non so dirvi per quanto, senza piangere. Un minuto, forse due. Poi ho preso la giacca, la borsa, e sono uscita. «Buonanotte ragazzi, io non sto più in piedi e domattina mi alzo presto. Fermatevi pure quanto volete».