Graffi.
Incisioni come quelle rupestri, parole mute di un’epoca remota.
Ma non sono scene di caccia, danze propiziatorie quelle che leggi su questo muro.
Sono graffiti di morte. Scritti da mani ormai cenere.
La camera è disadorna. Un silenzio di morte la abita.
Parete grigia, graffi graffi graffi.
Indovini le unghie.
Unghie di bambini, piccole le incisioni che scalfiscono il muro, irridente o forse solo indifferente.
Non si scappa, i topini in trappola moriranno tutti.
Su per il camino, dai forni alle stelle.
Più lunghi i graffi di donne e uomini – unghie di aristocratica, unghie di popolana, unghie di operaio, unghie di professore di storia, unghie unghie unghie -, graffi più profondi, disperati nell’angoscia della fine, disperanti come la fame d’aria che il gas consuma, inesorabile, soffocante. Mortale.
Auschwitz.
Un nome, un graffio nella Storia.
Una ferita di nove lettere. Uno squarcio che fa sanguinare la memoria.