“Essere stati a Magliano significa, ridendo, essere stati matti.”
(Mario Tobino, Le libere donne di Magliano)
Cosa ci spaventa? La domanda sembra banale, eppure non lo è. Se provassimo a sviscerare le nostre paure e andassimo alla ricerca delle ragioni che le scatenano, ci renderemmo conto di un fatto oggettivo: siamo spaventati da ciò che non conosciamo. Eppure, da sempre, ciò che non conosciamo ci attrae, spesso irresistibilmente.
L’attrazione verso l’ignoto è connaturata all’uomo. È quella che gli ha permesso, ad esempio, di fare scoperte geografiche, scientifiche, archeologiche, muovendosi in lungo e in largo nello spazio, nel tempo, nel passato e nel futuro e, soprattutto, dentro se stesso. È l’attrazione per l’ignoto che ha spinto psicologi e psichiatri a studiare la mente umana. Gli scrittori stessi sono attratti dall’ignoto e usano la scrittura come strumento di conoscenza, per addentrarsi nelle profondità dell’animo umano. Proprio per questo, si potrebbe dire, senza sbagliare, che ogni scrittore è, in fondo, uno psicologo.
Ma cosa succede quando lo psicologo, o meglio lo psichiatra, e lo scrittore coincidono, ossia sono la stessa persona? Beh, può succedere che emerga una straordinaria personalità, un connubio perfetto di entrambe le professioni come nel caso di Mario Tobino.
Nato oltre un secolo fa, esattamente il 16 gennaio 1910 fu psichiatra, poeta, romanziere. Illuminato da Macchiavelli nell’adolescenza, visceralmente appassionato di Dante nell’età adulta (nella sua biblioteca mise su una sezione a lui dedicata, raccogliendo volumi di critica ed esegesi in più lingue e omaggiandolo con Biondo era e bello (1974), esordì come poeta con Poesie (1934) a cui seguirono altre raccolte; come autore di racconti con La gelosia del marinaio (1942) e, come romanziere, vinse il Premio Strega con Il clandestino (1972) e numerosi altri premi (Campiello, Viareggio, ecc).
Il suo nome, e parte della sua fortuna, sono tuttavia legati a quell’opera particolarissima, non un vero e proprio romanzo ma quasi un diario, frammentario e poetico, che è Le libere donne di Magliano (1953).
Nella prefazione alla seconda edizione, quella del 1964, si legge: “Adesso sono venticinque anni che vivo tra i matti e la notte sempre più me li sogno: volti che vicinissimi mi ridono spastiche risate, parole mi arrivano distinte eppure non riesco a decifrare se sono di derisione o di richiesta di aiuto, donne mi piangono davanti con i capelli disciolti e so che non ho nessuna possibilità di consolarle.”
È quasi una dichiarazione, fatta con estrema umiltà, dell’impossibilità di conoscere e riuscire a comprendere completamente l’universo dei matti, quelle “creature degne d’amore” a cui Tobino si dedicò per tutta la sua vita ma è, allo stesso tempo, la presa di coscienza che esiste un confine molto sottile tra malati e “sani” e che “questi sani – a loro insaputa – sono anch’essi fragili”.
La letteraria Magliano è in realtà Maggiano, in provincia di Lucca, l’ospedale psichiatrico, o meglio il manicomio, come lui stesso lo definisce, dove Tobino lavorò e visse, in due piccole stanze, a partire dal 1943.
Oggi, a sessantanni dalla prima edizione, le storie di quelle donne e uomini, banalmente definiti matti, affrescati dalla penna amorevole e poetica di Tobino, ci parlano ancora e, in uno strano, ma nemmeno così tanto, parellelismo, quello che il fotografo americano Jon Crispin, da sempre attratto dai luoghi dell’abbandono per eccellenza come le periferie, i manicomi e le carceri, sta facendo con le sue fotografie, catalogando, ad una ad una, le valige dei pazienti che vissero tra il 1910 e il 1960 nel manicomio di Willard, New York, sembra avere lo intento: far conoscere, ridare volto, anima e soprattutto identità a quelle persone condannate all’oblio che la società gli impose, spesso per tutta la vita.
Magliano come Willard, quindi. Cambia il luogo ma non il senso della storia forse perché i manicomi, in fondo, si assomigliano tutti e hanno tutti le stesse caratteristiche: lo stridente contrasto tra il dentro e il fuori, tra la memoria e la cancellazione di intere esistenze. “Fuori c’è la vita, la gioventù, la bellezza, la gioia che ride; e qui i matti rinchiusi, prigionieri dei loro deliri, sudati, sporchi, poveri.” scrive Tobino.
E sebbene alla fine de Le libere donne, si precisa che “nessuno dei malati descritti in questo libro è ospite di alcun manicomio, nessun personaggio ha un reale contrapposto e qualsiasi nome e riferimento è puramente casuale.” come possiamo non credere che personaggi come la Berlucchi, la Maresca, l’epilettica Soldani, la pazzia senza peccati di Tono, la Campani, la Gabi non siano mai esistiti? Altro non sono se non il risultato di tutti i pazienti che Tobino ha visitato, con cui ha vissuto, in manicomi italiani e stranieri. Allo stesso modo le valige di Frank C., il veterano dell’esercito, con la sua divisa perfettamente conservata del 1950 e le foto dei suoi cari; quella dell’epilettica Flora T., con le boccettine del profumo e quelle delle medicine; la protesi della gamba di Henry L.; il giornale del giorno in cui Peter L. fu internato; lo strumento musicale di Charles; i nastrini di Anna, fotografate amorevolmente da Jon Crispin, ci parlano di una variegata natura umana ignorata per decenni e degna di essere conosciuta.
“Il manicomio è pieno di fiori ma non si riesce a vederli.” ha scritto Tobino.
Anche dopo la legge 180 del 1978, cioè la legge Basaglia (che fu da spunto per Tobino ne Gli ultimi giorni di Magliano), anche dopo la chiusura del Willard, che fu ospedale psichiatrico dal 1800 al 1995, oggetti e ricordi ci parlano di queste persone dimenticate. E se è vero che “i matti non hanno né passato né futuro, ignorano la storia” è vero che tocca a noi “sani” non ignorarla e, perché no, allo scrittore e al fotografo recuperare memoria e dignità, anche in nome di quella dea misteriosa, la pazzia, che da sempre ci attrae.
“Ogni alba prevede la giornata. Le urla dei malati non rompono alcuna maglia, sono voci che passano attraverso le sbarre.”
Anche attraverso le parole e le immagini, si potrebbe aggiungere.