“Chi nel frattempo cerca di continuare a vivere”, ecco una onesta definizione media dei genitori: dico quelli della mia generazione, ma più comiputamente, e con molto patemi in meno rispetto a noi, anche quelli che ci hanno preceduto. Con il forte sospetto – quasi una certezza – che le generazioni precedenti, quanto all’arte di non farsi sopraffare dai figli, fossero molto più attrezzate della nostra.
Io sono un borghese di sinistra. Da nessuna parte è scritto che anche tu debba diventare un borghese di sisnistra.
Michele Serra, Gli sdraiati – all rights reserved
In questo blog non trovate recensioni. Le ho chiamate spigolature perché quello che faccio consiste nel mettere da parte, mentre leggo un libro, una frase, un’immagine, un’idea. Partendo da lì, da quella frase, o immagine, o idea, cerco di spiegare perché secondo me vale la pena di leggere l’opera che la contiene. Se a mio giudizio non ne vale la pena non ne parlo, lascio ai recensori questo compito. Io non ho la pretesa di esserlo, sono una lettrice appassionata e mi limito, in quanto tale, a comunicare un’impressione a caldo, una riflessione estemporanea. Tutto ciò in poche righe, poiché mi raffiguro i lettori del mio blog – e i viandanti del web in genere – come persone che tempo ne hanno poco, che come me fanno slalom fra molti impegni e pochi momenti di respiro guadagnati a fatica.
Del libro di Michele Serra che mi ha ispirato queste riflessioni, Gli sdraiati, non mi hanno colpito soltanto le frasi che ho riportato all’inizio. Ho scelto quelle perché mi sono sembrate più adatte di altre a rappresentare l’essenza del ritratto di una generazione di figli che, come in uno specchio, rimanda quello di una generazione di padri (e madri); Serra racconta con lucida ironia la sorda resistenza dei primi a lasciarsi forgiare a immagine e somiglianza dei secondi, questi ultimi a loro volta consapevoli della perdita di autorevolezza che ha reso poco credibili i loro tentativi di trasmissione alla generazione successiva di un adeguato strumentario di interpretazione della realtà.
Già dalle prime pagine è fin troppo facile identificarsi nel genitore smarrito e trovarsi in sintonia con il suo monologo interiore; mi chiedo se per i lettori giovani (ce ne saranno?) l’identificazione con gli esemplari della loro specie possa essere altrettanto agevole. Un disagio che potrebbe diventare angoscia suscita la descrizione di un conflitto armato, una vera guerra, tra l’esercito più folto e meglio equipaggiato dei Vecchi e quello più sparuto e sommariamente attrezzato dei Giovani, trama di un romanzo che il protagonista-padre cova. Vi si legge l’estremizzazione di un’idea tipica della nostra epoca ma forse già allo stadio embrionale presente da sempre in ogni generazione che si appresta (o dovrebbe apprestarsi) a diventare protagonista del presente: parlo dell’idea semplificante e piuttosto rozza che basterebbe spazzare via tutto quello che la generazione precedente incarna perché tutto migliori. Ecco, con un brivido d’inquietudine mi auguro che la soppressione fisica della generazione precedente descritta da Serra si riveli, nei decenni a venire, solo un’efficace iperbole letteraria e non un’agghiacciante premonizione.
Cronache di ordinarie manifestazioni di incomunicabilità si alternano a brani in cui il protagonista-padre rivolge al protagonista-figlio preghiere e minacce (in entrambi i casi, si tratta di buffe e a volte patetiche espressioni d’impotenza) che dovrebbero persuaderlo a lasciarsi coinvolgere in una passeggiata montanara dal forte significato simbolico (una sorta di introduzione alla vita adulta, una consegna del testimone). Ed è proprio in montagna, durante la mitica scalata che d’improvviso il protagonista-figlio accetta di compiere, che il racconto si scioglie in un finale che spiazza e commuove (almeno, ha commosso e spiazzato me), aprendo alla speranza.