Lui si prendeva amorevolmente cura di lei in tutto.
L’assisteva giorno e notte.
Era cominciata così, col darle una mano, e poi guarda te dove erano finiti.
Dopo aver sistemato nel bagagliaio della sua auto i sacchi della spesa fece per avviarsi alla portiera della macchina, ma le squillò il telefonino nella borsa. Nonostante piovesse rimase in piedi a cercare l’apparecchio che suonava come una bambina indaffarata a giocare con le costruzioni. Lui notò i suoi movimenti imprecisi e titubanti, ma mai negò che per prima cosa l’attrassero di lei furono i capelli dorati che sotto la pioggia brillavano.
Le si avvicinò senza una scusa in mente, senza la battuta pronta, così, perché non poteva farne a meno.
E il telefono continuava a squillare, la mano a scavare nella borsa, la pioggia a scendere su di lui, su di lei, sul parcheggio delle auto mezzo vuoto.
Lei sembrò proprio non accorgersi di lui.
“Tutto bene?”, domandò, e Lenka trasalì.
Alzò di scatto gli occhi, guardando davanti a sé. Guardando…senza vedere.
“Sì, grazie, non trovo il telefono.”, ma appena terminò la frase afferrò il portaocchiali. Ma fu un attimo, il tempo di tirarlo fuori dalla borsa, sentire col tatto che quello non era il telefonino, udire ancora il trillo della suoneria…e scoppiò in lacrime.
Lì dov’era.
Lui le si avvicinò, e intanto il telefonino smise di suonare.
La guardò.
Guardò il bastone, che inizialmente non aveva visto. O meglio sì, certo, lo aveva visto, ma insomma non credeva…non pensava che…
Cinque minuti dopo erano in auto, in quella di lui. Si era offerto volontario per accompagnarla a casa. Nonostante lei avesse declinato l’offerta, “vedi, io la macchina ce l’ho, è qui”, lui aveva insistito e così eccoli là in tangenziale.
Lenka gli raccontò tutto, come solo con gli sconosciuti si fa: la sua vita brevemente ma con i dettagli giusti; i suoi studi, il lavoro, l’ex marito, la morte della madre. E poi l’incidente che avvampò nella sua casa in montagna, il tentativo eroico di salvare la madre in casa e la sua vista che se ne andò.
Cenarono. A casa di lei.
Lui fu molto premuroso. La fece sedere sul divano, le consigliò un’artista francese da ascoltare durante la preparazione della cena, e quando dei semplici spaghetti al sugo furono pronti l’aiutò ad accomodarsi sulla sedia, riempiendole il bicchiere di vino quando era vuoto e guardandola quando parlava, anche se sapeva che lei non potesse vederlo.
La trovava bellissima, e sapere che lei faceva tutto da sola – come poteva, certo, ma tutto da sola – la rendeva ancora più affascinante.
Aveva una casa piuttosto grande per vivere da sola, e non un filo di polvere, non qualcosa fuori posto. E inoltre lavorava, quindi non aveva moltissimo tempo da dedicare alle pulizie. Senz’altro doveva essere una donna organizzata, o forse semplicemente volenterosa.
Combattiva.
Si sentirono dopo diverso tempo, quasi un mese. Lui aveva perso le speranze. Trentacinque anni, un lavoro piuttosto precario, niente da offrirle. E poi chissà com’era il suo ex marito, si domandava Max. Se lo immaginava bello e imponente, alto, vestito di tutto punto, con un buon lavoro, una macchina pulita e spaziosa.
Perché lei avrebbe dovuto volere lui al suo fianco? Non lo aveva mai visto e mai sarebbe riuscita a farlo…
Però disse ‘fanculo, io adesso la chiamo, al massimo mi dice di no. E la chiamò.
Lei rispose al terzo squillo, e immediatamente gli tornò alla mente l’immagine di lei ferma al parcheggio del supermercato, con i capelli e la giacca tutta bagnata, a cercare quel maledetto telefono che suona nella borsa.
Lenka sorrise all’altro capo del telefono non appena lui le chiese di rincontrarsi.
E lei semplicemente rispose: Sì.
Adesso erano sdraiati sul divano, ad ascoltare Charles Trenet, quel cantante francese che lui le fece conoscere la prima sera. Stavano un po’ stretti, a dire il vero, ma l’idea di alzarsi e raggiungere il letto non li aveva nemmeno sfiorati.
La casa era quella di lei: alla fine lui aveva deciso di abbandonare il suo monolocale per stabilirsi da lei.
E aveva anche perso il lavoro. La crisi economica, il taglio ai trasporti pubblici, e così da autista di pullman divenne improvvisamente disoccupato.
Si occupava della casa: cucinava, lavava, addirittura stirava – aveva imparato, chi l’avrebbe mai detto?
Lei portava a casa i soldi, sì. Ma lui comperava gli incensi migliori quando andava al supermercato (un altro però, non quello dove si incontrarono), cambiava le lenzuola del letto e metteva la legna nel camino non appena la temperatura si abbassava di qualche grado.
Stavano bene.
Facevano il bagno insieme, ed era eccitante e al tempo stesso rilassante concedersi un momento di pausa l’un con l’altra. E accarezzare il corpo di Lenka era mille volte più bello che accarezzare il proprio.
Un giorno lui volle provare a bendarsi gli occhi per un giorno intero. Disse: Voglio provare a vivere come te, a godermi le sensazioni con molta più intensità. E passarono la giornata a toccarsi a vicenda per verificare la presenza l’una dell’altro, ad imboccarsi le fragole dopo pranzo, oppure a rimanere sdraiati e basta sul tappeto a sentire l’odore della legna bruciare nel camino.
Max non trattò mai Lenka come una donna non vedente, ma come la donna della sua vita, da riempire da attenzioni e da aiutare alla minima difficoltà. E questo era anche quello che lei faceva con lui.
Probabilmente Lenka non avrebbe mai visto il suo volto, o il colore degli occhi nocciola, il neo dietro il collo. Ma arrivò il momento in cui dentro di sé capì che non sarebbe mai stato un problema, che si poteva amare anche ad occhi chiusi.
E da quel momento fece così.