«Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto», assicurava Ramòn a un giovane Clint Eastwood in Per un pugno di dollari. Per fare un parallelismo, posso affermare con certezza che quando un uomo miope incontra mio papà, il miope è un uomo morto. L’uomo miope, va detto, nell’equazione può tranquillamente essere sostituito dalla donna insicura, il ragazzo timido, l’uomo con la luna storta o il comune essere umano che cammina sulla sua strada. Come corollario della proposizione, mi sento peraltro di aggiungere che in questo caso, quando mio papà incontra un uomo col fucile, non succede proprio niente. Nessuno sguardo truce, nessuna folata di vento, nessun duello. Niente di niente, freddezza più assoluta. Nemmeno un saluto. Ed è qui che voglio arrivare.
Mio papà non possiede un fucile, almeno non credo: in quanto a chincaglieria acquistata, sapientemente nascosta e comparsa all’improvviso, in genere riesce a sorprenderci. Per quanto mi è dato sapere, mettiamola così, mio papà non possiede un fucile. La sua arma batti-pistola è un semplice saluto: o meglio, un semplice non-saluto. Cosa hanno in comune un miope, un timido, un insicuro e uno che si è alzato male? Non ti salutano, mai. Per un motivo o per l’altro, quando ti imbatti in uno di loro, puoi solo regalare un bel ciao e sperare di essere ricambiato. Nessun problema, io lo faccio volentieri: non sono miope – solo ipermetrope e un po’ distratta – e la timidezza la combatto da che ho memoria, l’insicurezza fa invece parte di me come le dita con cui sto battendo sulla tastiera del computer, come la volubilità. Al saluto però ci tengo, ci tengo davvero. Dicono sia un fatto di educazione, uno dei primi insegnamenti di mamma e papà. Sebbene mia mamma sia una comune salutatrice – né troppo, né troppo poco -, i fatti presenti mi portano a credere che il saluto non sia uno dei pilastri su cui i miei genitori hanno fondato la mia formazione. Credo – pensiero mio, ma sono io a scrivere: datemi torto se vi pare – sia piuttosto una questione di ricerca di calore umano, di instaurare un rapporto, un mini-rapporto anche, tentare una comunicazione che potrebbe finire lì o gettare le basi per qualcosa di più grande, in un futuro prossimo o lontano. Credo sia, nel mio caso, una necessità: la necessità di un’insicura che un giorno ha provato a nascondere per tanti brevi momenti di essersi alzata col piede sbagliato. E le è piaciuto un sacco, tanto che non ha più smesso. Ci ho lavorato però, non è venuto naturale: partivo da una situazione di svantaggio, ai già citati tratti del mio carattere va aggiunto il cromosoma Y d’apertura. «Vuoi continuare a lagnarti del non-saluto degli altri o inizi a fare tu il primo passo?», mi sono detta quel giorno. E ho iniziato. Le contingenze poi hanno giocato a mio favore. I tanti, tantissimi, volti spesso senza nome in università: per anni gli stessi, alcuni ancora tutt’ora privi di nome ma con la spunta del «ciao»; il lavoro in un bar dove il saluto è di rigore e servire un caffè senza abbozzare un sorriso è fare il lavoro a metà; la palestra: il disagio da spogliatoio e l’angoscia dello spinning rafforzano il legame tra donne più di qualsiasi chiacchierata sul divano. Il mio vero maestro però è stato Carmelo, la mia cagnolina arrivata e partita lasciando un vuoto di cui nessuno in famiglia – anni dopo – ancora si capacità. Carmelo non si chiamava Carmelo: registrata all’anagrafe canina come Irma Lampone, sembrava rispondere con più solerzia a nomi con la C, come Canilo, Canederlo o Camillo. Carmelo poi ha avuto la meglio. Carmelo. Carmelo è vissuta due anni, uno dei quali sotto chemioterapia. Un male cattivo l’ha trovata quando aveva pochi mesi ed è stato con lei tutto il tempo necessario per cui, sparendo con chi lo conteneva, si portasse via anche un pezzo di noi. Di tutti noi: non solo a casa, la adoravamo tutti quella cagnolina coi ciuffetti. Tutti. L’ho portata a spasso ogni giorno, da quando ha iniziato a zampettare le ho fatto conoscere ogni vicolo del paese. Io, io che i cani onestamente non li avevo mai amati. Carmelo. Carmelo salutava tutti: metteva il muso tra le sbarre dei cancelli, si avvicinava alle gambe dei passanti, piegava la testa davanti ai cani che incrociavamo e faceva l’occhiolino ai gatti. Lo faceva davvero. Riusciva anche – sensazionale – a farsi salutare da mio papà, e non di ritorno: entrando in casa, l’unico saluto era per lei, regina indiscussa davanti a figli, moglie e gatto. Carmelo salutava tutti, non le importavano genere o razza, altezza o garrese, non le importava l’aria chiaramente indispettita dei gatti, non le importava di fare un passo in più e leccarti, e sporcarti. Non le importava. Carmelo salutava tutti ed era felice, Carmelo ti salutava ed eri felice.
Carmelo voleva insegnarci qualcosa, a tutti. A me ha insegnato a lasciar perdere la lagna permalosa e farlo, questo primo passo, mi ha insegnato che non importa chi hai davanti, il suo ruolo, il suo umore, la sua superiorità sociale, il suo colore, la sua razza o la sua stazza, il suo essere naturalmente portato ad abbaiare o a miagolare: mi ha insegnato che quel saluto lo meritano tutti, indistintamente, mi ha insegnato che dal saluto esci vincitore, sempre. E il bello è che nessuno dal duello esce sconfitto, a meno che non sia lui stesso a volerlo, decidendo di non ricambiare. Me lo ha insegnato, questo non significa che io abbia imparato, che sia stata un’allieva diligente e scrupolosa; e poi certo, resta sempre quel mattino in cui non ti va di alzare gli occhi, quel pomeriggio in cui speri di non incontrare nessuno; ce ne saranno sempre. Carmelo però è stata ineccepibile nel suo lavoro, non si è mai distratta, non ha mali mollato, si è impegnata dando tutta se stessa, come si dice riescano a fare solo i bambini mentre giocano, professionali, quando tu li chiami e nemmeno ti sentono tanto sono coinvolti. Carmelo ha dato tutto, ci ha dato tutta se stessa finché non c’era più niente da dare. Finché ha capito che il suo compito era finito, che non ce n’era più, così è andata. Come Mary Poppins che, riunita la famiglia Banks, apre il suo ombrello, raccoglie la valigia, e parte in cerca di altre famiglie da raddrizzare, di altri cuori da aprire, di altri bambini a cui insegnare a giocare. Carmelo ha aperto le sue grandi orecchie, troppo grandi per il suo musetto, anche dopo che una sera mio papà – l’uomo col fucile che a lai diceva ciao – le aveva accorciato quei ciuffetti che la rendevano tanto femminile. Carmelo ha aperto le sue grandi orecchie, le ha riabbassate e se n’è andata, mentre io le stringevo. Mentre le dicevo «ciao», io per prima.
Ciao Carmelo, ciao.