Michael non poteva sopportare il fatto che fosse dovuto uscire di casa così com’era, in tuta e scarpe da ginnastica, per delle semplici mele.
Sua madre le aveva detto: due, me ne servono due, va’ a vedere se i Robinson hanno due mele da prestarci.
La solita domenica piovosa, e quel giorno la mamma di Michael aveva deciso di preparare una torta alle mele. Senza avere mele in casa. Ma voleva prepararla, aveva insistito. Ma siccome doveva misurare gli ingredienti – così lei disse, ma il figlio sospettò che la donna non avesse voglia di abbandonare la sua bella vestaglia in ciniglia per cambiarsi e uscire di casa – chiese cortesemente al figlio se potesse andare lui al posto suo.
Certo, rispose Michael, maledicendosi di non essere capace a dire no.
Un giorno o l’altro a furia di annuire mi verrà il torcicollo, pensò.
Sylvie sentì il campanello di casa sua suonare. Che strano, non suonava da giorni, l’ultima volta era stata lunedì quando il postino le consegnò due bollette da pagare – che non aveva nemmeno aperto.
Si infilò le ciabatte ai piedi e dette un’occhiata dallo spioncino.
Vide un ragazzo in tuta, le scarpe da ginnastica di un orribile colore rosso. I capelli bagnati, ovviamente senza ombrello.
Sorrise.
Forse Dio l’aveva ascoltata.
“Ehm, salve, scusi se la disturbo. Mi chiamo Michael, abito nella casa là in fondo”, disse il ragazzo indicando con il dito un punto vago alle sue spalle.
La donna tacque.
“Stavo cercando i Robinson ma forse non sono in casa e beh, ecco, vede, volevo semplicemente chiederle se avesse due mele da prestarmi. Sa’, mia mamma sta facendo una torta e…beh, ci servirebbero delle mele, la torta è di mele, ecco.”
Era stranamente imbarazzato, lui che non si faceva molti problemi a socializzare con un qualche sconosciuto alla fermata dell’autobus.
La donna che gli aveva aperto la porta era molto bella, non superava i trentacinque anni: i capelli biondi con qualche ciocca castana, occhi nocciola, una carnagione pallida che colorava un viso perfetto, né troppo grande né troppo piccolo. Probabilmente un volto anonimo, sì, ma un volto anonimo bello.
Gli piaceva, ecco tutto.
“Ma certo, ho giusto fatto la scorta l’altro ieri al supermercato. Amo le mele. Vuoi entrare?”
“Volentieri, grazie.”
Michael entrò nella casa della donna, ben arredata con un buon odore. Incenso? Olio essenziale di qualche pianta?
C’era un lieve sottofondo musicale, qualcosa di classico, ma Michael non se ne intendeva proprio, di musica classica. Mozart o Beethoven erano per lui pressappoco la stessa persona.
“Mentre raggiungiamo la cucina ti mostro la mia casa, vieni.”, disse la donna prendendolo per mano, e per quanto il gesto fosse bizzarro e curioso, e Michael sorpreso e a tratti spaventato, non mollò la presa ma anzi, strinse la mano che l’aveva afferrato.
Non poteva crederci. Era bellissimo, come lo voleva lei, come doveva essere il figlio che aveva sempre sognato. Non importava se a completare il quadretto non ci fosse un padre. A fare il genitore maschile ci avrebbe pensato lei, questo non sarebbe stato un problema.
Stringeva la sua mano ancora bagnata dalla pioggia, ma così viva, così sua.
Gli mostrò il salone, la camera da letto, il bagno, come se a lui fosse mai potuto importare.
Era felice.
Quel ragazzo era il figlio mai avuto.
Ma subito Sylvie si rabbuiò: le mele.
Lui era lì per le mele, non per il calore della sua mano.
Era buffo, ma anche affascinante, curioso. Lo avrebbe raccontato a scuola, l’indomani. Sarebbe arrivato un quarto d’ora prima del suono della campanella, il tempo di confidare ai suoi compagni di scuola come riuscì a sedurre una donna mai incontrata prima, che abitava poco dopo il bosco, in una casa bella, grande e tutta sua.
Che strano modo di presentarsi. Aveva chiesto due mele, non il giro turistico della casa. Ma la donna teneva la sua mano stretta e lui niente, si faceva guidare, non aveva il coraggio di mollare la presa.
Anche perché lei non sembrava intenzionata a volerlo fare, ma anzi a stringergliela ancora, senza levarsi dal volto quel bellissimo, irresistibile sorriso.
Doveva fare qualcosa. Il ragazzo se ne sarebbe andato una volta prese le due mele, e chissà se poi l’avrebbe più rivisto. Sarebbe tornato a casa. Dalla sua vera madre. E a questo pensiero Sylvie si sentì sommergere da una rabbia senza nome, fortissima.
Strinse la mano del ragazzo.
Lo sentì lamentarsi, come un bambino che urla che la scarpa gli sta troppo stretta.
E lei diventa subito la mamma di quel bambino, e gli urla: è stretta lo so, la stringo ancora di più adesso, così non ti muovi e vediamo se scappi.
No.
Quel ragazzo non sarebbe scappato da lì.
La camera da letto era semplice, ma il copriletto nero dai bordi dorati non l’aveva mai visto in vita sua. Quel profumo dolcissimo, poi… E il comodino con un libro poggiato sopra, la lampada etnica ai piedi del letto, uno specchio alto e ovale.
Il bagno interamente bianco: asciugamani, pavimento e pareti, persino lo spazzolino. Nessun altro colore.
“Ma ecco le mele, ora te le do. Non penserai che mi sia dimenticata.”
Fu un attimo.
Lo portò all’ingresso della cucina e giurò – Sylvie lo giurò a se stessa – che voleva davvero darle le mele e lasciarlo andare. Si rendeva conto del suo istinto irrazionale di prendere quel ragazzino e farlo suo, il suo bambino, il suo figlioletto, la sua famiglia. Si era divertita a pensarlo, ad immaginare quel giovane girovagare per casa sua, chiamarla mamma, raccontarle che cosa aveva fatto a scuola, come fossero andati i compiti in classe.
Quindi ecco, lei entrò in cucina, aprì il frigorifero e prese le mele che stavano in una ciotola di vetro trasparente. Gliele mise in mano. Così, senza un sacchetto, senza nemmeno avergliele lavate.
Il ragazzo le prese, la ringraziò infinite volte, sembrava che gli avesse regalato un biglietto da cento euro. E invece no, erano due mele, cinquanta centesimi nemmeno al supermercato.
Quando salutandola lui aprì la porta di casa e le dette le spalle – ecco, in quel momento lei non resisté più.
Un colpo in testa.
Un rumore assurdo, fortissimo.
E poi il dolore.
Michael cadde a terra, le mele rotolarono per tutto il pavimento di legno, raggiungendo il salone col camino acceso e il tavolino con le bottiglie di liquore.
Sentì il suo corpo in balia delle mani della donna, che lo trascinava per tutto il pavimento con il solito sorriso.
Ma che stava succedendo?, si domandò.
Mio, mio, mio, mio, mio…
Sylvie non pensava ad altro.
Sentì il cigolio di una porta che si apre. Aveva la vista annebbiata ma l’udito funzionava fin troppo bene. Se non fosse stato per quel forte mal di testa probabilmente sarebbe riuscito a liberarsi dalle braccia della donna. In fondo non sembrava così forte, anzi. La sua costituzione era normalissima, una donna di altezza e peso medi.
Il dolore alla testa si espanse verso tutto il corpo.
Michael si arrese, non poteva fare altrimenti.
Lo rinchiuse nel ripostiglio vuoto, dove una volta teneva i biscotti per la colazione e qualche pacco di pasta comprato in offerta. Le scorte invernali.
Gli assestò un calcio nella pancia e sentì l’urlo di dolore del suo piccolo. Ancora uno, l’ultimo, giuro, continuava a ripetere tra sé e sé Sylvie, mentre inspiegabilmente il suo corpo non rispondeva ai segnali della sua mente, continuando a tirare calci al ragazzo bagnato ed indifeso che piagnucolava ai suoi piedi.
Quando fu certa che il ragazzo non sarebbe riuscito a muovere nemmeno un dito allora chiuse la porta del ripostiglio a chiave.
Stappò una bottiglia di vino, e sorseggiò il liquido rossastro con molta calma, facendolo oscillare nell’elegante bicchiere di cristallo.
Dopo mezz’ora udì dei colpi alla porta del rispostiglio: il ragazzo si era ripreso.
“Aprimi! Aprimi! Maledetta puttana, lasciami andare!”, urlava il ragazzo.
Ma era come se lei non lo sentisse.