“La gente decide di essere questo o quello. Ma è una specie di danza: possono fare esattamente l’opposto con uguale convinzione”.
Incontrai Doris Lessing la prima volta casualmente, quando la mia mente era un groviglio di idee sparse senza meta. Lei se ne stava in disparte, come scoprii essere suo solito, nell’angolo più silenzioso della biblioteca. Era nascosta tra libri impolverati, vittime disgraziate di un’epoca che nessuno si degna di ricordare, almeno in certe parti del mondo. Riluttante, sfilai “Martha Quest” dalla fila di copertine gemelle ridotte all’osso, e la portai a casa con me. Me ne innamorai. Fu quello il momento in cui mi resi conto che potevo dare un nome alle mie idee.
Può sembrare strano, ma solo dopo aver passato in rassegna altri suoi romanzi sono arrivata a “Il Taccuino d’oro”, in parte perché godeva di un’attenzione estrema da parte delle femministe di seconda generazione-e questo lo trovo tutt’ora irritante-; in parte perché sapevo contenere in sé una complessità difficile da comprendere in una sola lettura. Ad oggi non mi sono pentita della mia scelta, leggere Doris Lessing è come essere invitati ad un allettante banchetto dopo un anno di digiuno, si gustano le pietanze volta per volta, assaporandone la deliziosa prelibatezza in attesa del dolce finale. E quando finalmente il dolce arriva, la vellutata sensazione del cioccolato nero esplode nel palato, e rapiti da un’esperienza tanto sublime, si potrebbe quasi credere che la fame non tornerà mai più.
Spiegare i punti precisi che rendono “Il Taccuino d’oro” un’esperienza così delicatamente indimenticabile, è quasi impossibile. Per diversi decenni l’eco delle sue pagine è stato marchiato come “femminista”, ma le ragioni che rendono quasi irritante questa definizione, si trovano proprio nel peso che porta la parola stessa. Considerare il romanzo semplicemente femminista sarebbe infatti riduttivo, almeno seguendo il significato convenzionalmente deciso per cui le femministe rivendicano con rabbia solo spazi femminili. Nelle quattro sezioni in cui il romanzo è diviso, infatti, Lessing non si limita ad argomenti prettamente “di/da donne”, ma inquadra l’insieme in un respiro più ampio, in cui si evidenziano gli errori che hanno reso la società Occidentale ottusa, mettendone in luce, con la schiettezza diretta che la contraddistingue, la prepotenza e l’incapacità di comprendere i propri difetti. La colonizzazione dell’Africa Centrale, l’illusione quasi pietosa di un comunismo che rinnega la deriva dittatoriale, l’indifferenza piccolo borghese di un Occidente capitalista in continua guerra con se stesso. “Il Taccuino d’oro” è anche questo, è sociale nel suo senso più politico, e come tale rivendica diritti che alcuni hanno preferito ignorare, relegandolo ad un argomento di competenza esclusivamente “femminile”.
Certo, Doris Lessing dà voce all’animo delle donne, questo è un punto focale. Anna Wulf è il centro da cui si diramano le strade apparentemente frammentate della vita, l’eroina che si divincola dal caos che domina l’esistenza. Al limite tra ordinario e follia, Anna è una e mille, la ribelle che rivendica l’uguaglianza comunista nei paesi Africani sotto dittatura bianca, l’amante consapevole della propria sessualità, la madre, l’amica, la scrittrice. Anna Wulf è un’insieme di frammenti scomposti e uniti, e come la musa che ne ha ispirato il nome, Virginia Woolf, sente il peso delle sue antenate sulle spalle, come Virginia combatte contro il senso di colpa innescato dalla sua scrittura, come lei descrive puntigliosamente un’intera giornata. Ma si potrebbe concludere che, prima di tutto, come Virginia Woolf, Lessing decide di dare alla sua protagonista una voce che racconti un’altra prospettiva, una nuova verità. Ruvida, implacabilmente diretta, pure disperatamente profonda. Una voce in meno da questo Novembre, difficile da rimpiazzare.