Lo sappiamo tutti che non c’è un solo modo di costruire una storia. Preciso subito che di questo argomento, che mi affascina da sempre, voglio parlare da lettrice che ama sia le storie di Elena Ferrante sia quelle di Erri De Luca. Cito questi due autori perché mi sembrano rappresentativi di due opposte modalità narrative, che pure mi piacciono molto entrambe: le storie della Ferrante mi hanno sempre dato la sensazione di essere scritte per il cinema, di essere già, per così dire, film, ma senza ancora le immagini. Tanti personaggi, vicende ramificate e intrecci complessi; il ritmo è veloce, poi d’improvviso rallenta nelle scene cruciali che si riempiono di dettagli, di sguardi e smorfie e gesti minimi; la prosa è disadorna, nitida, essenziale, priva di effetti speciali. Eppure incolla il lettore alla pagina, lo trascina nel cuore degli eventi. Al contrario, nelle storie di Erri De Luca i fatti che accadono non sono importanti, le trame hanno una struttura esile, sono messe a fuoco le emozioni dei protagonisti più che le azioni, sono perfettamente rese le atmosfere. Il linguaggio è poetico, inusuale, l’uso del vocabolario spiazzante, insoliti gli accostamenti di aggettivi e sostantivi, fantasioso l’uso dei verbi.
Ho appena finito di leggere l’ultima opera della Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, terzo volume di una saga le cui protagoniste principali, Elena e Raffaella, dette Lenù e Lina o Lila, amiche fin dalla scuola elementare, sono legate da un rapporto complesso, ambivalente, a volte oscuro. Forse il vero protagonista della storia è questo rapporto, il suo crescere mentre crescono le due donne, tra ostilità sotterranee e slanci affettuosi, dedizione e dimenticanze; sullo sfondo Napoli, fotografata nella sua grandezza e nella sua miseria, l’Italia degli anni Settanta, così ribollenti di fermenti nuovi.
La Ferrante mette in scena tutti i nodi centrali di quegli anni, con una speciale attenzione per i nuovi assetti delle complicate relazioni fra i sessi che cominciano faticosamente a delinearsi, fra prese di coscienza delle donne e invincibili ottusità maschili; anni in cui poteva accadere, durante un’animata discussione sui temi scottanti della politica e dei conflitti sociali, che le donne presenti si ritrovassero “nella condizione di sonnolente giovenche in attesa che i due tori saggiassero fino in fondo la rispettiva potenza”. Erano infatti i tempi degli angeli del ciclostile; Elena Ferrante li racconta con precisione e misura, coinvolgendo chi al mondo c’era già e, si spera, chi ancora era di là da venire.
Rosalia Messina