“Cantando o Grazie degli eterei pregi
di che il cielo v’adorna, e della gioja
che vereconde voi date alla terra
belle vergini! a voi chieggio l’arcana
armoniosa melodìa pittrice
della vostra beltà; sì che all’Italia
afflitta di regali ire straniere
voli improvviso a rallegrarla il carme.
Nella convalle fra gli aerei poggi
di Bellosguardo ov’io cinta d’un fonte
limpido fra le quete ombre di mille
giovinetti cipressi alle tre dive
l’ara innalzo, e un fatidico laureto
la protegge di tempio, al vago rito
vieni, o Canova, e agl’inni.”
Sono i primi versi dell’Inno primo, preceduti dalla dedica “Ad Antonio Canova” con cui Ugo Foscolo invita lo scultore a presiedere, metaforicamente, al rito di dedicazione alle Grazie facendo riferimento a Torricella di Bellosguardo, presso Firenze, il luogo in cui aveva fissato la sua dimora nel soggiorno fiorentino nell’estate del 1812. È il periodo a cui corrisponde la prima stesura frammentaria del carme (di cui i primi accenni s’erano avuti già nel 1803, nei Commenti alla Chioma di Berenice) che verrà ripresa nella primavera 1813 e poi, con continui rimaneggiamenti e aggiunte, si trascinerà fino all’estate del 1814 quando troverà una stesura più pulita ma non definitiva all’interno del Quadernone.
A Firenze, che allora non costituiva un fiorente centro di scambi culturali ma una sonnolente provincia, Foscolo trova la serenità ricercata dopo gli eventi milanesi (la rottura definitiva con Vincenzo Monti, l’ostilità dell’ambiente letterario milanese, l’insuccesso dell’Ajace). Agli Uffizi ammira più volte la Venere del Canova e proprio dal clima pacifico e di distaccata contemplazione nasce l’ispirazione per Le Grazie. L’idea è quella di ricostruire la storia della civiltà e delle arti nel progresso civile, etico e morale dell’umanità, in piena aderenza alla funzione educativa attribuita da Foscolo stesso alla letteratura e al letterato. I tre inni sono dedicati a Venere “la bellezza apparente”, Vesta “custode del fuoco eterno che anima i cuori gentili” e Pallade “la dea delle arti consolatrioci della vita e maestra d’ingegni”. Nel progetto foscoliano nel primo inno si narrerà l’origine delle Grazie e i primordi della civiltà umana, nel secondo il sacrificio del poeta alle Grazie e il ripensamento, in chiave fantastica, di una Firenze come nuova culla della poesia, il terzo inno, infine, tratterà del Velo che preserverà le Grazie delle passioni e garantirà purezza e perfezione.
La frammentarietà dell’opera si deve sicuramente, oltre che al carattere occasionale della stessa, strettamente connessa al contesto fiorentino, anche alle vicende personali del poeta e a quelle politiche incombenti, che lo costringono a spostarsi continuamente fino al definitivo abbandono di Milano nella notte del 30 marzo 1815, a seguito della notizia della fuga di Napoleone dall’Elba, e della richiesta di fedeltà dell’Austria agli ufficiali del Regno italico, evento che lo conduce in Svizzera, dove sarà costretto a nascondendersi ancora, essendo ricercato dalla polizia austriaca.
Nel settembre 1816 Ugo Foscolo s’imbarca per l’inghilterra, stabilendo la sua dimora a Londra. Al periodo inglese corrisponde l’unico episodio di revisione del carme e precisamente a quando è chiamato dal Duca di Bedford a partecipare al volume che illustra la sua prestigiosa raccolta di opere scultoree Outline Engravings and Descripions of the Woburn Abbey Marbles (Schizzo, incisioni e descrizioni dei marmi dell’Abazzia di Woburn). Nella collezione del duca figura il gruppo de Le Grazie di Canova. Foscolo accetta di curarne una descrizione accompagnandola con frammenti tradotti da un antico inno greco e preceduti da una sua Dissertazione critica, riprendendo quanto pensato inzialmente per il carme stesso cioè di accompagnarlo con lunghe note illustrative e discorsi critici che ne esplicassero ne accompagnassero la lettura.
Le Grazie costituisco, evidentemente, l’opera in cui quel labor limae, che caratterizza tutte le opere di Foscolo, si fa ancora più meticoloso perché è quello in cui la ricerca stilistica, che muove da Omero, non si fa imitazione del classico, pura emulazione ma ricerca, rinnovamento, recupero dell’antico e dei suoi temi e strumenti, l’epico, il lirico, con vesti nuove, aderendo a quella novità, tutta ottocentesca, di unificare le varie arti come la poesia e la musica, caratterizzate dal ritmo e dalla successione temporale, al tempo unico, contemporaneo, simultaneo, della pittura, scultura e architettura.
Ma se da un lato Ugo Foscolo va alla ricerca di una nuova classicità che sia etica ed estetica insieme, dall’altro Antonio Canova si fa portatore di una classicità più che altro formale dove l’aspetto estetico prevale su quello etico, nella convinzione che l’arte debba essere superiore e comunque estranea alla politica e perseguire solo l’assolutezza del bello.
Quella di Canova è, quindi, spesso una classicità solo anelata ma mai agganciata del tutto, in cui la razionalità prevale sulla sensibilità senza quel perfetto equilibrio che aveva caratterizzato la scultura greca. È un classicismo che sembra basarsi sulla semplice adesione ad un modello e all’applicazione di formule in quella idea di classico fuorviata delle scoperte di Winckelmann, quelle sculture romane che, essendo solo copie di statue greche, non ne rispettavano lo spirito. Lo stesso candore dei marmi canoviani, l’estrema levigatezza delle superfici ben poco hanno a che fare con la pittoricità donata dal colore con cui erano dipinte le statue greche e quell’attenzione nella resa delle carni che aveva fatto insuperabile la grandezza di Prassitele, per esempio. Sono gesti sospesi nel tempo, quelli rappresentati dallo scultore veneto, immagini asettiche e inespressive della realtà.
Sono poche, effettivamente, le opere in cui la vera carne si percepisce come in Dedalo e Icaro o in Paolina borghese come Venere vincitrice, in cui, come nella Venere di Milo, Canova gioca abilmente con quella morbidezza, tanto agognata, che compiutamente vedrà solo nei marmi del Partenone quando verranno esposti a Londra nel 1815.
Un accenno si ha tuttavia ne Le Grazie scolpite in due versioni. La prima, gliela commissionò Josephine de Beauharnais, all’epoca moglie di Napoleone ed oggi è custodita all’Ermitage di San Pietroburgo; la seconda, oggi custodita, per sette anni ciascuno, dalla National Gallery of Scotland di Edimburgo e dal Victoria & Albert Museum di Londra, gliela richiese, quasi supplichevole, il Duca di Bedford rimasto profondamente colpito dal gesso che Canova teneva nel suo atelier romano. Lo scultore riprese il modello, apportò piccoli cambiamenti e accompagnò la scultura personalmente dal committente, quasi a voler rimandare il più possibile il momento del distacco, consapevole probabilmente dalla grandezza dell’opera che aveva realizzato. Nella natia Possagno, nella sua Casa-Museo arrivò, non a caso, il gesso tratto dalle Grazie inglesi e lì restò insieme al gesso originale della prima versione delle Grazie.
Scampati alla distruzione e recuperati attraverso un attento restauro, i due gessi sono in mostra, al Museo Canova di Possagno (Tv), dal 6 dicembre 2013 al 4 maggio 2014 insieme ai due bozzetti, tempere, disegni, incisioni, sempre sul tema delle Grazie, a duecento anni esatti dalla creazione di quei capolavori.
E se Le Grazie del Canova contribuirono forse solo marginalmente ad “accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all’indipendenza, gli ingegni al vero e al bello” come nell’idea che aveva Foscolo, forse quel concetto di poesia in grado di “percuotere le menti col meraviglioso” fu raggiunto senza che lo stesso se ne rendesse conto dato che, ancora oggi, quel gruppo scultoreo è uno dei più famosi e ammirati al mondo.
All’incompiutezza del poema foscoliano, corrisponde l’estrema compiutezza dell’opera canoviana, in una “corrispondenza d’amorosi sensi”, che li ha fatti dialogare in questi due secoli a memoria della grandezza dell’arte capace di unire, pur nella loro diversità, tutte le sue forme e le sue manifestazioni.