Due bambini che litigano in un parco giochi. Un paio di spintoni, qualche sberla e un bastone a portata di mano. Due denti che volano via, un po’ di sangue, il viso sorpreso e le lacrime di entrambi. Questo il movente per un incontro fra genitori civili decisi a riflettere sull’accaduto, sul perché della lite, sulla giusta punizione e la necessaria riconciliazione. Così si apre la rappresentazione cinematografica Carnage di Roman Polanski, adattata dall’opera teatrale di Yasmina Reza, Il dio del massacro (Le Dieu du carnage).
In scena, sia sullo schermo che davanti al sipario, non si respira. L’azione si svolge al chiuso di un appartamento di Brooklyn, dove due coppie di genitori decidono di incontrarsi per discutere l’incidente avvenuto fra i loro figli. I Longstreet, rappresentante lui e scrittrice lei, e i Cowan, avvocato e operatrice finanziaria, sono il ritratto della medio-alta borghesia americana. Sorseggiando un tè e mangiando un po’ di torta, si nascondono dietro frasi di circostanza e toni deferenti. La censura dei pensieri e dei sentimenti è esercitata dall’ambiente che li circonda: una casa ben arredata, perfettamente in ordine e ben spolverata, riproduzione fedele e apparente della pulizia morale delle loro anime. Quando aprono la porta per andarsene però, ecco una via di fuga, ecco che il massacro, che riprende metaforicamente quello dei figli, ha inizio.
Da adulti civili, il loro Carnage, è fatto di parole, insulti, recriminazioni urlati tra il corridoio e l’ascensore. Basta rientrare in casa con una scusa qualsiasi, ed ecco che la maschera perbenista e conciliante torna a coprire i loro volti e le loro coscienze. La riconciliazione è cercata a stento, raggiunta a tratti, distrutta, come fra i loro figli, dalla sofferenza fisica. La signora Cowan, incapace di contenere oltre il suo malessere, vomita fisicamente e verbalmente la sua nevrosia ed incapacità di vestire la maschera dell’affabilità. Si accorge improvvisamente che “comportarsi bene non serve a niente, è stupido essere onesti”. Nessuno tuttavia, “le aveva chiesto di vomitare le sue opinioni”, come le rinfaccia la signora Longstreet.
Ormai è tardi. La casa come i loro abiti sono imbrattati, sporchi. Inutile pulirsi e profumare l’ambiente. Niente è più in ordine. Vano tentare di uscire di nuovo, evadere da quella gabbia infernale. I protagonisti, surreali e autentici come in un’opera cecoviana, sono paralizzati dalla loro mancanza di morale, incapaci di trovare una soluzione, inabili a favorire la conciliazione dei loro figli. Il loro gioco al massacro, tra fumo e alcol, diventa sempre più cruento e senza esclusione di colpi, tutti contro tutti. Mentre i loro figli fanno la pace, loro, esausti ed in silenzio, siedono alla fine sul divano, evitando gli sguardi, sgomenti ed increduli. “Questo è il giorno più infelice della mia vita”, dichiara la signora Longstreet. Già, le fa eco il signor Cowan, “io credo nel dio del massacro. Il dio che regna incontrastato dalla notte dei tempi..”.