Aldo ha comprato un biglietto per la metro dal tabaccaio all’angolo e bevuto un cattivo caffè al bar di fronte. Non ha fatto in tempo a prenderlo a casa e ha evitato di farlo perché non voleva svegliare mamma Franca, passando davanti alla sua camera per andare in cucina, perché da un po’ di tempo a questa parte, già fa fatica ad addormentarsi. Aldo vorrebbe comprare anche il giornale. Fa un passo in avanti verso il gabbiotto dell’edicola ma poi si trattiene. Rimette le monete in tasca. Anche quella piccola abitudine, coi tempi che corrono, è un lusso che non si può più permettere. E poi per leggere cosa? Solo cattive notizie. Rassegnato, prende una copia del quotidiano gratuito da un distributore e imbocca il sottopassaggio principale della metropolitana. È affollato come sempre e alcuni viaggiatori non stanno usando i gradini per scendere ma scavalcano, maleducatamente, le file ferme sulle scale mobili. Corrono, urtando chiunque. Nessuno chiede scusa. Nel labirintico itinerario verso i treni il rumore di centinaia e centinaia di tacchi e voci si fa costante e monotono. Aldo guarda il display sopra la banchina. Mancano un paio di minuti all’arrivo del suo treno, direzione Battistini. Di sicuro sarà in anticipo ma non è un problema. Deve aspettare i colleghi con cui si è dato appuntamento a Piazza Barberini per poi scendere per via del Tritone e svoltare per via del Corso fino a Palazzo Chigi. Da lì comincerà una nuova lunga giornata.
Ecco il treno. Uno sciame di teste nude e di cappelli si approssima appena dietro la linea gialla. Il treno rallenta, stride, si ferma. È un attimo e si è tutti dentro, come inghiottiti dal risucchio dello scarico di un lavandino. Grovigli di mani, sovrapposizioni di occhi e bocche, incastri imperfetti di braccia e gomiti, di teste e spalle, teorie di ombrelli e borse. Respiri, odori, profumi, voci, aliti. Ammassati in quella vicinanza forzata tra esseri umani che solo sulla metro e in più tristi occasioni si vede nella vita. Come raccontava papà Vittorio che aveva fatto la guerra, era stato prigioniero dei tedeschi ed era sopravvissuto solo per costruire un’Italia migliore. Non è sicuro che il ricordo di suo padre gli appartenga completamente, che sia del tutto suo perché papà Vittorio se n’è andato quando Aldo era ancora bambino, per un incidente sul lavoro, al cantiere dove lavorava alle porte di Roma. Una morte bianca, come si dice, bianca come la neve che arrivò di lì a pochi giorni, in quell’inverno del 1956. Aldo lo sa: non è importante se il ricordo di suo padre sia l’insieme dei ricordi di mamma Franca, zia Giulia, nonno Aldo, nonna Cesarina e tutti coloro che lo hanno conosciuto. Di papà Vittorio ha sempre saputo quello che gli è bastato per ricordarlo e per amarlo e farlo amare da Paola, sua figlia e Marcolino, suo nipote. Tuttavia, lo ha sempre pensato, un uomo che sopravvive ad una guerrra non dovrebbe morire su un cantiere. Non si dovrebbe morire per il lavoro. Aldo lo pensa continuamente specie da quando, da qualche mese, da sconosciuto operaio in una nota fabbrica di automotive qual era, è balzato agli onori della cronaca, come si suol dire, ed è diventato famoso pure lui, o quasi, perchè si sente nominare e chiamare in causa di continuo dalla televisione e dai giornali quando si parla di esodati. È una parola nuova, che hanno inventato quelli del governo e i giornalisti, una parola nuova inventata solo per Aldo e per quelli come lui che hanno lavorato sodo tutta la vita e pensavano di andare in pensione tra qualche anno ma che, probabilmente, non ci andranno mai. È per questo che stamattina viaggia nella direzione opposta a quella che prendeva quando si metteva in macchina per andare a Pomezia ogni mattina; è per questo che coi colleghi ha appuntamento a Piazza Barberini; è per questo che faranno un sit-in davanti a Palazzo Chigi.
Sul treno comincia a mancare l’aria. Aldo sente caldo. Si toglie il cappello. Immagina che i capelli siano spettinati e si passa una mano dalla fronte verso la nuca. Poi si accarezza la barba e slega il nodo della sciarpa a quadri coi colori dell’autunno che Marcolino gli ha regalato per lo scorso compleanno, quando ancora era un operaio specializzato in una delle officine della ditta e la parola esodato non l’avevano ancora inventata, né per lui né per nessun altro. Una lunga striscia rossa ritmata da pennellate bianche passa davanti agli occhi di Aldo. Riesce a malapena a leggere Fontana di Trevi. Il treno rallenta. Finalmente potrà respirare. Le porte scattano e si aprono. Riversano sulla banchina centinaia e centinaia di corpi che, coi loro movimenti repentini, tagliano l’aria gelida e la invadono di calore e odori, pronti a dissolversi verso le uscite. Aldo viene spinto fuori e urtato, più volte. Il giornale, che aveva infilato in una tasca del giaccone, cade per terra ed è subito travolto e sporcato dalle impronte di un numero imprecisabile di scarpe. In una mano tiene stretto il cappello. La massa si è già frammentata in gruppi variegati e disomogenei: alcuni sembrano plotoni in marcia, altri mandrie impazzite. Aldo è disorientato. L’aria che sperava di trovare fuori dal treno è intrisa di polvere e scarichi che sanno di carburanti e ferro. Barcolla, cerca un appiglio. Uno strascico di quell’ondata scomposta di corpi lo urta ancora, lo spinge verso un angolo, contro il muro della galleria del sottopassaggio. Aldo batte il capo e si accascia.
Signore, riesce a sentirmi? è la voce di una donna. Portatelo fuori! grida un uomo. L’ambulanza sta arrivando, tranquillizza la voce di un ragazzo in lontananza. Aldo si sveglia. Dieci paia di occhi sono puntati su di lui. Lasciamolo respirare, dice qualcuno nelle retrovie. Come si sente? Ha battuto la testa ma non sembra grave. Stia tranquillo, l’ambulanza sta arrivando. La donna ha gli occhi verdi come due gocce di giada e il sorriso dolce delle annunciatrici della televisione che gli tengono compagnia nelle lunghe giornate a casa. Tiene la mano di Aldo e lo rassicura. All’improvviso si apre un varco e un paio di soccorritori s’inginocchiano accanto a lui. Oscultano il cuore sotto il maglione. Lei soffre di pressione, vero signore? Aldo fa cenno di sì con la testa. Solleviamolo, dice l’altro. La portantina è dietro di loro, lo adagiano su di essa, aiutati da altri due soccorritori rimasti in attesa. La luce filtra come miracolosa dalle scale che conducono fuori, finalmente in strada. C’è sempre più aria e la luce, così intensa, quasi lo acceca. Aldo segue con lo sguardo la donna che lo ha soccorso e le fa cenno di avvicinarsi. I soccorritori spostano Aldo sul lettino e, mentre lo caricano sull’ambulanza sistemano, un respiratore. Stanno per infilargli la mascherina quando Aldo li blocca e indica la signora che si avvicina con la sua sciarpa in mano. La piega e la poggia accanto a lui. Aldo non ha ancora aria nei polmoni a sufficienza per poterle dire grazie e dalla bocca gli esce solo un sibilo. La donna annuisce: Va tutto bene. Questi signori si prenderanno cura di lei. L’annunciatrice sparisce dietro le porte che si chiudono mentre l’ambulanza parte a sirene spiegate. Aldo chiude gli occhi, si sente improvvisamente stanco, vorrebbe riposarsi anche solo per un momento ma un pensiero si fissa martellante nella sua testa: come farebbe Paola, che è una ragazza madre, a mantenere Marcolino col suo lavoro part-time se lui morisse? Sandra, Sandra, da quando non ci sei tu va tutto storto. Il volto di sua moglie gli appare coi contorni sfumati come quello di un angelo. Non la ricorderà mai consumata e stanca in un letto d’ospedale come nei suoi ultimi giorni. Riapre gli occhi all’improvviso: cosa diranno i colleghi non vedendolo arrivare? Signore, ha con sé le sue pillole per la pressione? E solo allora Aldo si ricorda della scatola rimasta sulla mensola sopra il tavolo, nella cucina di mamma Franca.
Il cellulare sta vibrando da un paio di minuti nella tasca esterna della borsa di Laura. Se ne accorge solo quando l’ambulanza è in fondo alla piazza e gira l’angolo, mentre la sirena diventa un suono lontano e ovattato. Dove sei? Ho avuto un contrattempo ma sto arrivando. Lo sai che non puoi mancare proprio oggi. Laura ridiscende le scale del sottopassaggio per le quali è salita solo pochi minuti fa, al seguito dei soccorritori del 118. Il treno è già fermo quando giunge alla banchina e le porte del mezzo si chiudono alle sue spalle, pochi istanti dopo il suo ingresso. Un posto, accanto ad un uomo, è libero tra i sedili davanti a lei ma Laura preferisce accomodarsi accanto ad un’anziana minuta seduta alla sua destra.
Avrebbe dovuto dirlo ad Anna che non ci sarebbe andata, che non se la sentiva. Avrebbe dovuto dirglielo due sere fa quando l’ha chiamata per ricordale il giorno dell’udienza. Avrebbe potuto dirlo all’amica ma all’avvocato? No, forse l’avvocato non avrebbe capito quanto sarebbe stato difficile per lei assistere alla condanna di quell’uomo, che in fondo è stato il suo compagno per più di sei anni. Tuttavia, è sicura che a quest’argomentazione Anna, come amica e come avvocato, avrebbe risposto ricordandole le bugie in caserma e al pronto soccorso, l’omertà dei vicini, gli insulti dei parenti, l’indifferenza, le minacce, la paura, le percosse, i lividi. Laura si torce le mani e dice a se stessa di stare calma, che se ha sopportato tre anni e mezzo di processi e psicoterapia allora può superare anche questo giorno, anche se non è un giorno come gli altri. Dice a se stessa che il peggio è passato, che non tutti gli uomini sono uguali anche se non ne è troppo convinta perché, se davvero lo fosse, non avrebbe smesso di guardare i telegiornali e le trasmissioni di approfondimento. Troppe storie che ricordano la sua storia, quella storia che vorrebbe dimenticare perché sa di non poterla cancellare, così come non può cancellare le cicatrici che le sono rimaste sulle braccia da quella volta che Maurizio la spinse contro la porta a vetri del bar, mandandola in mille pezzi, solo perché si era tinta i capelli di rosso e aveva riso alle battute di Antonio il meccanico, che veniva a prendere il caffè tutte le mattine alle undici in punto.
Laura scende dal treno e si siede ad una panchina. Rovista nella borsa. Da una scatolina trae un paio di compresse. Le manda giù. Sa che tra poco si sentirà meglio, che sarà più serena e potrà decidere cosa fare. Rimane qualche minuto a fissare i binari vuoti ed infiniti e due ragazzini punk che ridono e si baciano mentre aspettano il treno sulla banchina nella direzione opposta. Pensa a come potrebbe essere la sua vita dopo questo giorno. Pensa che potrebbe addormentarsi senza il timore che il telefono squilli ogni ora, senza che Maurizio venga ad urlare sotto le finestre della sua casa. Pensa che potrebbe svegliarsi senza trovare la fiancata della 500 ancora rigata, senza lettere minatorie nella cassetta della posta. Pensa che potrebbe riaprire il suo locale, sì, cambiare il bancone e i tavolini, dare un paio di mani di una tinta allegra alle pareti e far fare una nuova insegna per Il Bar all’Angolo. Pensa che, un giorno, potrà non avere paura degli uomini che le rivolgeranno la parola e che potrà fregarsene del giudizio di alcune donne. Pensa che l’officina di Antonio potrebbe essere ancora aperta, anche se c’è la crisi e nel quartiere in tanti hanno chiuso.
Una musica, poco lontana, s’insinua tra questi pensieri. Laura s’affaccia verso il sottopassaggio. Quattro ragazzi senegalesi stanno suonando la versione africana di un classico americano e un gruppo di turisti si è fermato ad ascoltare quell’orchestrina improvvisata. Una ragazza dai tratti nordici e le gambe lunghe, sotto un paio di pantaloncini, ha cominciato a ballare, inventando dei passi. Le dita dei musicisti corrono veloci sugli strumenti, accarezzandoli, pizzicandoli e percuotendoli. Non si curano delle goccioline di sudore che imperlano la loro pelle d’ebano. Sono liberi: cantano e sorridono e i loro corpi, fasciati dai colorati costumi tradizionali, sono percorsi dal vivace ritmo della vita. Laura li osserva attentamente. Pensa che domani potrebbe sentirsi come loro. In fondo, proprio oggi, ha soccorso un uomo.