Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei totalitarismi del XX secolo.
A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.
Nel 1923 sposò Ilona Matzner che gli resterà accanto per più di sessant’anni. La sua Lola fu per lui musa, collaboratrice e curatrice di gran parte delle sue produzioni e con lei girovagò per il mondo una volta intrapresa la strada dell’esilio. Per qualche anno la coppia visse a Parigi, dove lo scrittore fu inviato come corrispondente dal giornale tedesco. Fu un periodo molto stimolante e ricco di incontri sia umani che professionali ma ciò non bastò a farli sentire integrati in quel paese e dopo un bilancio alquanto deludente (soprattutto dal punto di vista economico), tornarono in Ungheria trasferendosi a Budapest. Benché avesse dato prova di una buona versatilità in lingua tedesca, Màrai preferì scrivere nella sua lingua patria e manterrà questa scelta anche negli anni dell’esilio. Proprio in Ungheria giunsero i primi successi a fronte di una prolifica attività letteraria e giornalistica. Nel 1934 pubblicò “Le confessioni di un borghese”, un romanzo di formazione dalla forte impronta autobiografica in cui si assiste alla nemesi di un’intera Europa dagli albori del nuovo secolo, passando per i lustrini della belle époque, sino alla distruzione della I Guerra Mondiale.
Il talento di Màrai nel descrivere i disagi e la solitudine dell’uomo moderno è indubbio e tutto l’universo dei suoi personaggi, in primis le donne, quasi sempre le vere protagoniste della narrativa màraiana, vivono esperienze di straordinaria passione seguite dal distacco e dalla solitudine per un tradimento, “L’eredità di Eszter” (1938), o dall’addio ai luoghi e ai volti familiari, “Le braci” (1942), oppure parlano in maniera introspettiva dello smarrimento di fronte al ribaltamento dei valori tradizionali della società, “Divorzio di Buda” (1935). Màrai a buon diritto poteva essere considerato già dai suoi coevi uno dei più grandi interpreti ed ambasciatori della cultura ungherese, al pari di Ferec Molnar (autore de “I ragazzi della via Paal”) o della baronessa Emma Orscy (autrice de “La primula rossa”) ma è sempre stato in qualche modo vittima dell’indifferenza e di una censura non ufficiale per quel suo modo schietto ma elegante di raccontare la decadenza di una società, quella borghese, ed il fallimento degli esperimenti politici, prima del partito comunista filosovietico e poi di quello socialista :
“La società in cui vivo– scrive in Le confessioni di un borghese- è diventata indifferente non soltanto ai massimi valori dello spirito, ma anche allo stile umano e intellettuale della vita quotidiana. La direzione che ha preso la nostra epoca mi fa disperare. .considero fatali le ambizioni della tecnica e quella smania di primato che, in tutti i campi, eccita le folle” (cit., pp 456,Biblioteca Adelphi).
In un momento della sua esistenza contrassegnato da gravi lutti (morì il padre) e con la guerra in atto, la tensione fra Màrai e la società ungherese crebbe. Alcune delle sue opere pubblicate tra il 1942 e 1948 (tra questi Il Gabbiano, Terra!Terra!, Sinbad torna a casa) gli procurarono ostilità ed aspre critiche la più celebre delle quali fu la polemica con l’intellettuale marxista Georges Lukàcs. Così nel 1948 la famiglia Màrai, che era cresciuta con l’arrivo del figlio adottivo Janos, decise di lasciare il paese per quello che sarebbe diventato un vero esilio volontario. Dalla Svizzera all’Italia, passando per la Francia ed approdando negli USA, questa seconda fase della vita dello scrittore sarà caratterizzata dallo studio geo-politico di questi paesi ma con gli occhi ed il cuore sempre rivolti alla sua amata patria :
“Patria mia bella, lingua ungherese, che mi rimanga conservata fino all’ultimo istante” (da L’ultimo dono, diari 1984-1989)
Proprio l’Italia ha contratto una sorta di debito morale con Màrai e negli ultimi venti anni la continua ristampa dei suoi libri dimostra l’accresciuta attenzione su questo importante scrittore ed intellettuale del novecento la cui lezione suona più che mai attuale. C’è da dire che Màrai visse nel nostro paese in due momenti significativi della sua vita: a Napoli dal 1948 al 1952 e a Salerno dal 1968 al 1980. Ospitati da uno zio di Lola, i Màrai soggiornarono nel quartiere Posillipo. Le bellezze naturalistiche unite al folklore ed allo stimolante ambiente intellettuale gli consentirono di ambientarsi nella realtà partenopea osservandone con piglio antropologico ciascun fenomeno culturale, politico, sociale. Frutto di tali osservazioni è uno dei migliori lavori dello scrittore : “Il sangue di San Gennaro”, un opera a metà fra saggio e romanzo, scritta e pubblicata nel 1958 quando si trasferì a Baden-Baden. Màrai conobbe e frequentò Benedetto Croce ed altri intellettuali ma si relazionò anche con la gente comune e visse la quotidianità di quella comunità di cui scrisse : “Uomini di ogni classe e di ogni condizione mangiano e bevono le stesse cose, la pensano alla stessa maniera, sognano allo stesso modo. Sono tutti uomini mediterranei. Non tanto italiani, quanto piuttosto mediterranei. E’ questo il loro stato sociale “. (Cit pag 343).
Il miracolo del sangue non è che la fenomenologia di un miracolo intellettuale, una redenzione collettiva dalla bestialità umana. Dopo Napoli, si recò spesso a Roma come corrispondente per un radiogiornale ed al contempo scriveva articoli sulla situazione politica del suo paese. Solo nel 1967 il suo esilio potè dirsi concluso ma ormai l’Ungheria non era più la stessa e nonostante le attestazioni di benvenuto, Màrai decise di non tornare più a Budapest. Soggiornò altri anni in Italia, questa volta a Salerno finché non si stabilì negli Stati Uniti per raggiungere il figlio Janos. Gli anni americani sferzarono ancor più duramente lo spirito dello scrittore. Non si integrò mai con la cultura newyorchese né con quella degli altri Stati e dopo la terribile perdita del figlio e della moglie, si trascinò solo e vecchio sino alla vigilia di una nuova epoca. Proprio pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, nel febbraio del 1989, Sàndor Màrai rivolse un colpo di rivoltella contro se stesso e come in una scena tragica di una sua pièce teatrale salutò il mondo. Le sue ceneri, come fece lui stesso per la moglie ed il figlio, furono asperse nell’Oceano, confermando un’ultima volta di essere stato per tutta la sua vita niente e tutto con il Mondo. I suoi Diari, scritti dal 1943 sino al Gennaio del 1989 e pubblicati postumi con il titolo “L’ultimo dono” sono un vero compendio intellettuale ed umano della storia del novecento perché non riguardano solo la storia di un uomo ma dei popoli che lui stesso ha conosciuto.
Mi si permetta di concludere che senza il lavoro della dottoressa Marinella D’Alessandro, docente alla Università degli studi di Napoli l’Orientale l’opera di Màrai non sarebbe così nota e diffusa nel nostro Paese. Il suo è stato un lavoro di recupero, traduzione e promozione ed i libri di Màrai, indubbiamente, sono classici senza tempo che non dovrebbero mancare nella propria biblioteca.