“Lo scrittore pensò che era bello poter salvare le persone, oltre che ucciderle.”
I libri di Elvira Seminara sono sempre spiazzanti. Ti sembra che nella pagine si stia snodando una storia e la segui, ti abbandoni ad essa. Il ritmo ti prende, i personaggi ti diventano familiari.
Poi la guardi controluce, e intravedi altro. Significati nascosti, simboli. Interpretazioni possibili, fra le quali devi assumerti la responsabilità di scegliere. Oppure no, puoi tenerle tutte presenti. L’unica cosa che non puoi fare è comportarti da lettore passivo, l’autrice non te lo consente, non asseconda la tua pigrizia, non ti elargisce semplicemente un intreccio, una vicenda che va dal punto A al punto B. Magari con qualche deviazione, giusto per non farti addormentare.
Nella tua mente germogliano dubbi. Le letture sono plurime e sovrapponibili. Dopo aver letto, torni a leggere, per verificare un’ipotesi interpretativa che ti solletica.
Le svolte narrative sono imprevedibili, ma non nel senso usuale del colpo di scena che ti sorprende, come l’assassino insospettabile di certi polizieschi, o l’incontro fortuito − salvifico o distruttivo − che scioglie d’improvviso tutti i nodi di una storia che non si sapeva bene dove andasse a parare. Di imprevedibile c’è che il senso della storia ti appare ad un tratto diverso, addirittura rovesciabile. Come accade anche nell’ultimo romanzo di questa autrice, La penultima fine del mondo, ambientato in un paesino di una non meglio identificata isola, i cui abitanti, uno a uno, quasi colpiti da un’epidemia, si suicidano. Lievemente, lietamente, senza spasimi né contorcimenti, senza testamenti spirituali affidati a biglietti accusatori o consolatori. Lasciare la vita è come trasferirsi altrove. Accade, e basta.
La grancassa mediatica che si crea intorno a questo caso straordinario fa nascere inchieste e indagini che mettono sottosopra il paese, senza che nulla emerga.
Infine, l’oblio.
Capite bene che, a seconda dell’umore, dell’età anagrafica, del momento esistenziale che si sta attraversando e perfino delle notizie che si sono appena ascoltate al telegiornale, il lettore può vedere di tutto in questo microcosmo abitato da gente comune, alle prese con un problema che comune non è: il lento declino del Meridione, che muore senza nemmeno saperlo, schiacciato dalle sue contraddizioni; oppure un presagio apocalittico, in cui la fine del mondo è solo la fine di un certo assetto come finora l’abbiamo conosciuto.
E poi c’è lo scrittore. Testimone, insieme ai cani, dell’epidemia, rimasto in paese quando sono andati via tutti i curiosi e i giornalisti, ci appare improvvisamente in una luce diversa. Può scegliere di uccidere i personaggi ma anche di farli rivivere, come ci rivela la frase citata all’inizio. Lo scrittore può tutto. Registrare la realtà. Raccontarla nuda e cruda o cucirle addosso una veste poetica. Inventare storie verosimili o provocare il lettore con testi visionari. Può perfino tentare di cambiarla, la realtà, perché la parola è l’arma più potente che ci sia.
Rosalia Messina