Sono una di quelle persone che piange facilmente, lo ammetto, ma lo faccio senza farmi vedere. È come se fossi un contenitore che spesso si riempie troppo e quindi il contenuto tracima e viene giù, dagli occhi. Non ho argomenti d’elezione, sono una piangente seriale, ma non tutte le lacrime hanno stesso sapore, consistenza o motivazione e alcune di esse hanno senza dubbio maggiore dignità di altre, come le ultime che ho pianto: signore lacrime, credetemi. Non negherò di essermi sentita completamente pazza, ma non ho potuto controllarmi, le pagine avanzavano impietose sotto la furia del dito voltatore, quel medio infame mi portava avanti nella storia e inevitabilmente verso il finale. È così che ho vissuto gli ultimi momenti di lettura di “Storia di chi fugge e di chi resta” di Elena Ferrante: un lago di lacrime. Non era tristezza, non era commozione, nemmeno era felicità: era il pianto di chi ama e dovrà pure far qualcosa per dimostrare quell’amore, e allora piange.
Terzo capitolo della trilogia (ma quadrilogia) de L’amica geniale, segue al racconto dell’infanzia e a quello dell’adolescenza, portando a compimento senza concludere (da qui l’idea o la speranza che ce ne possa essere un quarto) parte delle storie del quartiere e delle sue famiglie. Sì, perché le famiglie di cui racconta Elena Ferrante, con una penna eccelsa, appartengono al quartiere più di quanto questo appartenga a loro. Il ventre molle di Napoli, il suo dialetto. le sue contraddizioni, il suo substrato culturale sono un’affezione, un morbo che ha infettato i nascituri, Lenù e Lila incluse. Puoi pure andartene, ma sei segnato. Gli anni ’70 da sfondo, la lotta proletaria declinata dai più preparati con le mani pulite e dai più ignoranti dalle mani callose, la necessità di Elena di sentirsi compiuta anche senza Lila, Lila che fuori dal quartiere sente il richiamo di questo come quello d’una sirena putrida e vuole farvi ritorno. Perché la casa dove nasci non la scegli e continuerà a chiamarti a sé anche se la cancelli dai pensieri: lo farà nel dialetto dirompente della rabbia, nelle parole del sesso che impari da bambino, nella cadenza della voce. E i temi si mescolano e per questo la casa diventa madre, le ragazze stesse diventano madri e perdono il loro essere donne dopo aver perduto lo status di ragazze con il parto più che con relazioni amorose. La smarginatura di cui soffre Lila la fa malata, quella di cui soffre Lenù non ha nomi, ma ha la stessa crudele evidenza. Chi sono loro due, che posto hanno fuori dal rione? E lo stesso rione si sta smarginando, ha un cancro che lungi dall’essere troppo aggressivo intacca, corrode, mangia e non uccide: il vero volto della nascente camorra. Lo sguardo di Elena Ferrante abbraccia tutto a 360 gradi e non eccede pur senza dimenticare nulla.
Quando una storia è così prepotente come questa ci si rifiuta di crederla finta, quando la penna che impugnata chissà da chi sembra scriva la storia tua, pur senza che ti appartenga abbastanza, la testa viaggia e cerca realtà dove ha trovato grandezza. Ho cercato in rete la storia di una ragazza napoletana che avesse pubblicato un libro con le famose, o famigerate, pagine spinte perché l’omonimia tra autrice e personaggio non smette di turbarmi. Ho trovato parallelismi tematici nelle pagine sul sesso del libro di Starnone che affronta la medesima tematica delle parole infantili dell’amplesso: così violente, familiari e oscure allo stesso tempo. E poi invece ho smesso, d’improvviso, forse ravvisando l’inutilità della ricerca.
Questo è un libro da amare, da custodire, da leggere e rileggere, non da investigare. Da amante di uomo sposato mi sono fatta ammiratore rassegnandomi all’idea che non avrei scoperto chissà cosa, non avrei svelato alcun mistero, non avrei potuto dare di più ad un libro che possiede già tutto: stile, trama, lessico perfetti.
Mi sono rassegnata a tutto questo, ma non senza fatica e non senza essermi concessa almeno qualcosa. Sì, io non ho scoperto cose che altri invece hanno trascurato, non ho indagato pagine che altri non hanno intuito, non ho svelato alcun arcano, ma l’ho amato questo libro più di voi che lo avete letto, più di voi che lo leggerete.
Se non ci credete non ditemelo mai: lasciatemi l’illusione che il mio sia l’amore più grande.