“Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo.” Feci sessanta chilometri quel giorno per trovare la frase. Era scritta sul retro di un CD, era una canzone e quella volta non la stavo scaricando. Si trovava evidentemente nel suo habitat più naturale: un negozio di canzoni, pardon, di dischi. Che fosse naturale o no, invece, fare appena sessanta chilometri per trovarne uno, lo lascio dire a voi. Fatto sta che, come ho già detto, avevo trovato la mia frase, abito perfetto e definizione precisa del mio essere. Tradurre i pensieri nelle giuste parole corrispondenti era stato sempre faticoso per me. C’era un mondo meraviglioso di partenza e dei suoni banali e scontati come arrivo. Volli ripagare l’intuizione degli Afterhours (pagando il commesso) e acquistai il CD.
Sulla via del ritorno ripensavo alla mediocrità di noi umani. Creature pigre, abbiamo svuotato di significato le stesse parole di cui abbiamo abusato. Ma uno scrittore- o un aspirante tale come me – non può macchiarsi di questo delitto, tanto più che è chiamato, come dice qualcuno, a dare i nomi alle cose. E i nomi giusti, se possibile! Anche per questo avevo fatto amicizia col mio vocabolario, Termine. Parlavamo spesso. Oh, niente di strano, s’intende. Lui mi diceva le sue emozioni ed io le mie. Ma lui si esprimeva bene, le parole che usava erano sempre calzanti. Le mie invece, ripetitive e meccaniche, erano il soggetto di un film già visto.
Un giorno, però, Termine era turbato, gli mancava una parola, non riusciva a chiudere una frase. Era talmente disperato che decisi di aiutarlo. Mi feci fissare subito un appuntamento dal Generale Foglio Bianco, il quale mi consigliò, date le circostanze, il grande George Orwell. Terrorizzato dalla neolingua, aveva creato il Centro per il Conio di Nuovi Vocaboli.
Mi accolse nel suo ufficio con grande cordialità, che io non seppi ricambiare se non con una domanda. “Cosa sono le sequenze?” “Le sequenze”– rispose- “sono aggregati di funzioni, senza le quali non è possibile il funzionamento della storia. Quando le sequenze si aggregano fra loro in un insieme ancor più vasto, formano una macrosequenza. Per ritrovare le sequenze si deve scomporre il testo a un livello minimo. Ad un livello superiore, più generale, si incontrano i nuclei narrativi, che sono elementi catalizzatori attorno a cui si aggregano le funzioni e gli indizi. Attraverso un nucleo narrativo, infatti, si esprime un elemento essenziale della trama stessa e dei suoi significati. Le sequenze si possono distinguere in narrative, descrittive, riflessive e dialogate. Naturalmente i vari tipi di sequenze sono diversamente usate dai narratori: si prediligono le sequenze descrittive, riflessive e dialogate, quando si vuole infondere un ritmo lento alla narrazione; si preferiscono, al contrario, quelle narrative, quando si costruisce un racconto denso di eventi che incalzano con rapidità. Lo smontaggio è la scomposizione di un testo in sequenze, le quali, fornite di un senso compiuto, sono collegate tra loro da un filo conduttore. Anche se l’individuazione delle sequenze è un’operazione che presenta margini di arbitrarietà, perché l’interpretazione può essere soggettiva, ti ricordo che in generale i confini della sequenza sono indicati da un mutamento come:
– la comparsa o scomparsa di un personaggio;
– la variazione di tempo e/o di causa-effetto;
– il cambiamento di luogo;
– l’introduzione di una riflessione o di un commento;
– il mutamento di un modo narrativo (es. dal racconto al dialogo).
Il rimontaggio è il sistema per penetrare nel contenuto stesso del testo, nello svolgimento del tema, cambiando l’ordine delle sequenze. Si può cominciare, ad esempio, dalla sequenza più importante, per entrare subito nel vivo della narrazione.”
Non era un discorso da fare tutto d’un fiato, ci furono come ovvio delle pause, ma alla fine gli venne comunque il fiatone. Allora, forse anche per rilassarsi, prese un libro dallo scaffale e disse: “ Ti leggo un paio di brani tratti da Se questo è un uomo di Primo Levi. Questo è uno splendido esempio di sequenza riflessiva. Ascolta.
Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza. Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità.
Ecco adesso un esempio di sequenza narrativa.
Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio il fondo della gamella per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.”
Detto questo si congedò in fretta, aveva da fare e a nulla valsero le mie richieste. Forse Termine se ne sarebbe fatto una ragione: in fin dei conti ne aveva a migliaia di parole!