L’espressione “sospensione dell’incredulità”, coniata da Samuel Taylor Coleridge nel 1817, indica la volontaria scelta del lettore (o dello spettatore) di fruire di un’opera di fantasia sospendendo momentaneamente le proprie facoltà critiche e logiche allo scopo di ignorare, durante la lettura, quello che apparirebbe, se non lo si facesse, privo di senso o incongruente. Tanto per semplificare, è questo patto fra scrittore e lettore che consente a quest’ultimo di credere ad un mondo al quale si accede da un armadio o ad un bambino che nasce con la coda di maiale. Il giudizio è sospeso a favore della narrazione. Fantasy, realismo magico, horror e affini perciò godranno del particolare processo mentale appena descritto. E un racconto di viaggio? Apparentemente un reportage non dovrebbe avere nulla a che fare con questo eppure… Eppure durante la lettura de “L’India nel cuore” di Vittorio Russo la sospensione dell’incredulità è procedimento necessario.
Vittorio Russo, con alcuni compagni, compie un viaggio nel continente indiano e lo racconta, come hanno fatto altri prima, ma lo fa in un modo completamente diverso: con la minuziosità di uno scrittore ottocentesco, con la sensibilità di un colto uomo moderno, con la pancia di un appassionato amante, con leggerezza di chi si sente piccolo dinanzi alle maestose contraddizioni e la voglia di condividere la straordinaria unicità della terra di cui è stato ospite. Ecco allora che la penna dell’autore si fa occhio per descrivere la grandezza delle opere architettoniche (ponendo l’accento sul fenomeno del sincretismo che ne ha mutato in modo unico i lineamenti), si fa naso e bocca per descrivere odori e sapori inconfondibili ed esotici, si fa cuore per narrare la pena di mendicanti, bambini, lebbrosi, si fa sorriso per indugiare sornione sulle descrizioni di fenomeni tanto inusuali quanto invece comuni ma esasperati ( le descrizioni del traffico sono pregnanti tanto quanto quelle del Taj Mahal).
In questo resoconto di viaggio io, lettrice, mi sono ritrovata immersa in momenti di disgusto e di esaltazione, ho visto templi dedicati ai topi in cui delle persone mangiavano da ciotole chicchi di riso precedentemente sgranocchiati dagli orridi animalacci, ho ascoltato a bocca aperta miti e leggende, ho sentito il cuore stringersi al racconto dell’ineguagliabile miseria, ho riso mentre l’autore attraversava la strada invasa da ogni sorta di mezzo di locomozione con in più mucche, dromedari e fachiri. E non solo. Ho scelto cioè di sospendere, in un certo senso, la mia incredulità, e non perché nel testo vi fossero falsità dettate dall’immaginazione, o perché vi fosse qualcosa di non vero, ma perché ho lasciato che le altrui parole mi conducessero in questo viaggio oltre i confini di me, occidentale, lontano dal divano su cui adagiata mollemente osservavo non vista i percorsi del gruppo in viaggio. Lo scrittore non tralascia però, senza farsi mai pedante, di descrivere la situazione delle donne, il sistema delle caste, il processo di evoluzione di un continente che sia avvia, per forza di cose, verso una rivoluzione epocale.
Ho una formidabile paura dell’aereo, l’ultima volta che sono salita su una di quelle trappole mortali ho esclamato ad alta voce “non si apre il carrello, moiremo tutti” non so bene in base a quale diagnosi di un problema che mi ero inventata lì per lì. Immaginerete le facce di quelli che erano con me. Non paga ho anche annunciato che l’ala era in fiamme (allucinazione bell’e buona) e che l’hostess, conscia del nostro triste destino, stesse piangendo. Insomma, la perfetta compagna di viaggio! Ed è accaduto: Vittorio Russo mi ha fatto venire una voglia viscerale di conoscere quei posti, toccare quella bellezza e quella miseria che si fondono in’armonia universale in quella terra dei contrari. Datemi le mucche sacre, datemi un elefante da cavalcare, datemi palazzi rosa da visitare. Datemi l’India.
Eventuali sciagurati ai quali annuncerò che stiamo precipitando sapranno con chi prendersela.