Aveva gli occhi lucidi, due olive sotto sale, mori, più neri dello scialle che portava e la faccia sempre scura che nessuno sapeva se avevano cominciato a chiamarla Nera per via del colore dell’abito o per quel grugno sempre serio.
La Scèpa era anche bellina però non aveva i denti davanti ed infatti quando rideva si copriva la faccia con la mano, perché si vergognava di quella bocca sdentata.
Gli occhi dei bambini hanno la capacità di posarsi sulla realtà e di guardare il mondo con occhi più sinceri di quanto, molto spesso, non siano in grado di fare gli occhi degli adulti e gli scrittori che scelgono come protagonisti delle loro storie i bambini ci danno la possibilità di “indossare altri occhi” e ci guidano verso narrazioni che si snodano, solo all’apparenza, come storie per loro ma che, in realtà, sono storie per i bambini che siamo stati e che, con ogni probabilità, dovremmo continuare ad essere quando decidiamo di approcciarci a certi temi, come quello tragico della guerra.
È ciò che, in estrema sintesi, fa Simona Baldelli, finalista al Premio Calvino 2012, con il suo romanzo d’esordio, che, tuttavia, è molto più di questo, racchiudendo in sè qualcosa di veramente speciale, destinato a rimanere nella memoria del lettore per lungo tempo.
Le sue pagine, infatti, sembrano avere ricevuto un tocco che definire magico appare certamente banale, dato il contesto, ma è del tutto calzante. E non è solo merito della Nera e della Scèpa, le due fate – l’una più seria l’altra più scanzonata – che accompagnano Evelina, la bambina protagonista, con la loro presenza protettiva e rassicurante, ma anche di una scrittura fluida e pulita, quasi scarna, fatta di frasi brevi che però sanno dire tutto, con grande tenerezza e, laddove occorre, con estrema durezza. Una scrittura in cui attenta è la ricerca di parole ed immagini prese e reinventate dal vocabolario e dall’immaginario dei bambini, in generale, e da quello contadino della protagonista in particolare. A tutto questo si accompagna un uso del dialetto, la cui musicalità ed efficacia, dona quel qualcosa in più alla narrazione, caratterizzando luoghi e personaggi, rendendola ancora più viva e pulsante di quanto son sia già.
Questo romanzo c’insegna che la guerra, anche se filtrata attraverso la magia, non perde la sua connotazione tragica ma viene letta esattamente per quella che è nella sua autenticità e verità, quell’autenticità e verità alla quale anche le fate – con la loro invisibilità o visibilità per pochi – appartengono nel mondo dei bambini, esattamente come la vita e la morte. È questo il mondo di Evelina che ha solo cinque anni e non conosce altra realtà se non quella dura del lavoro contadino e tragica della guerra – come capita a molti bambini ancora oggi – che ci fa vivere, attraverso i suoi occhi, l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, sulle colline lungo la linea gotica, a Cadelara, poco lontano da Pesaro.
Dall’arrivo degli sfollati all’incontro coi partigiani guidati dal Toscano, dalla scoperta di Sara, la ragazzina ebrea nascosta sotto una botola nella stalla, alla storia dolorosa di Angela e Peppe, dal passaggio dei tedeschi all’arrivo degli alleati, un’escalation di eventi che, ritmando la narrazione, toccano le corde dell’anima e scavano nel profondo evocando un passato neppure così lontano che viviamo, in prima persona, grazie ad Evelina. Alla fine del romanzo, ci sembra di averla conosciuta per davvero e sentiamo quasi il bisogno di doverla proteggere, proprio come dovremmo fare con i tanti bambini nel mondo che vivono quotidianamente queste realtà.
Forte è il desiderio di ringraziare la nostra piccola guida – e chi l’ha inventata e reinventata per noi – per il grande dono di averci accompagnato in un viaggio che appare quanto mai necessario ed importante fare a qualsiasi età.
Un viaggio dal quale torniamo certamente arricchiti, meno cinici e più sinceri, più autentici e veri, proprio come i bambini.
Il Toscano si era seduto, si era levato dalle tasche una manciata di soldi e l’aveva messa sul tavolo.
Evelina si sedette davanti a lui : “Chi l’è gl’alleati?”
“Quelli che vengono a salvarci.”
“E j’é bon o j’è trést?”
“Vedremo” disse il Toscano. Poi le domandò: “Sei contenta che finisce la guerra?”
Evelina alzò le spalle.
“Hai ragione, che ne sai te? Tu ci sei nata con la guerra. Non l’hai mai visto un giorno di pace.”