Le giornate primaverili hanno la capacità di mettere tutti di buon umore: forse sono i fiori che si risvegliano dopo il freddo, o forse la temperatura più mite e il sole che fanno già pensare all’estate e alle vacanze imminenti. Qualsiasi cosa sia, le persone sono più rilassate e serene, si salutano con un sorriso e non si affannano freneticamente ai loro affari senza guardarsi attorno.
Giacomo, però, quel giorno non era né rilassato né sereno. Al contrario, camminava guardando in basso, trascinando i piedi sul marciapiede, l’espressione corrucciata. La tracolla con i libri di scuola sembrava ancora più pesante del solito, nonostante al suo interno non ci fosse altro che un magro quaderno di appunti pieno di scarabocchi e qualche penna sparsa sul fondo.
Era maggio e, anche se mancava un mese alla fine della scuola, i professori avevano già tirato le loro conclusioni: per lui non ci sarebbe stata né promozione né debiti, solo la bocciatura.
Avevano convocato i suoi genitori e, di fronte a lui, l’avevano umiliato.
“Giacomo non è un ragazzo stupido” aveva detto la coordinatrice di classe “ma non si impegna e, per quanto noi professori abbiamo fatto di tutto per aiutarlo, ha voti troppo bassi e ormai è troppo tardi per recuperarli. Succede di avere dei periodi no a questa età, il prossimo anno gli verrà data un’altra possibilità per rifarsi”.
Sì, certo. I suoi genitori, che sembravano essere caduti dalle nuvole, a casa gli avevano urlato contro di tutto. Era la seconda bocciatura in tre anni, se aveva intenzione di andare avanti così doveva trovarsi un lavoro e mollare gli studi, invece di far spendere tempo e soldi inutilmente. “Figurati se lo assumono da qualche parte!” aveva gridato il padre di Giacomo “Ha diciassette anni, nessuna qualifica professionale e voglia solo di fare niente!”.
A Giacomo bruciavano quelle parole. Non era vero che non aveva voglia di fare nulla: a lui piaceva la musica, avrebbe voluto imparare a suonare uno strumento come ad esempio la chitarra, ma i suoi avevano sempre storto il naso quando glielo accennava. “Tempo e soldi persi”, dicevano. Era tutta una questione di soldi, che erano sempre troppo pochi, e di tempo, che sembrava non essere mai abbastanza.
Quel pomeriggio, dopo scuola, avrebbe dovuto fare il giro di tutte le agenzie della zona per seminare il suo curriculum, sperando di venire assunto da qualche parte. Poi sarebbe dovuto tornare a casa, sapendo che sua madre non riusciva a guardarlo senza stare male e che suo padre non avrebbe fatto altro che insultarlo.
Se avesse potuto, non sarebbe tornato a casa.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, una voce lo chiamò:
“Ehi, tu!”.
Si girò, ma non vide nessuno. Scrollò le spalle e continuò per la sua strada, poi, di nuovo:
“Ehi! Sono qui”.
Giacomo guardò in basso: un bambino sui dieci anni era seduto davanti alla vecchia vetrina di una gioielleria ormai chiusa da anni e lo guardava. Aveva il viso e i vestiti sporchi e tra le mani teneva stretto un sacchetto pieno di biglie.
“Vuoi giocare con me?” chiese a Giacomo. Senza aspettare una risposta, rovesciò il sacchetto per terra, sul marciapiede, e le biglie rotolarono da tutte le parti: erano colorate, alcune lucide, altre opache, altre ancora sembravano risplendere sotto il sole.
Giacomo rimase ipnotizzato da quelle piccole palline di vetro. Ne raccolse una e guardò all’interno: c’era l’immagine di una spiaggia caraibica con delle palme e il mare verde acqua. Era bellissima, davvero.
“Non posso” rispose al bambino. “Devo andare a scuola. Poi ho delle cose da fare”.
Questi rispose prontamente:
“E cosa te ne importa della scuola? Io non ci vado mai. Gioco sempre qui, con le mie biglie, fino a che non mi stanco. E non mi stanco mai. La scuola, il lavoro, i compiti.. sono tutte cose barbosissime e faticose. Preferisco stare qui”.
“E i tuoi genitori non ti dicono nulla?”.
“Oh, ci hanno provato. Ma dopo un po’ hanno rinunciato, perché non m’interessava cosa dicevano”.
Giacomo rimase scioccato da quelle risposte. Non gli sembrava che potessero essere vere.
“E come si gioca con le biglie?” chiese al bambino.
“Come vuoi tu. Usa la tua immaginazione: io invento qualcosa di nuovo tutti i giorni! E non mi annoio mai, perché scelgo io cosa fare e per quanto tempo farlo. Dai, prova!”.
Giacomo esitò: non aveva mai giocato con le biglie. Non sapeva nemmeno che esistessero ancora, pensava che con l’era della tecnologia fossero tutte scomparse. Tornò a dare un’occhiata alla biglia con la spiaggia. Ma sì… Era solo un gioco, in fondo.
Ne prese in mano un paio e cominciò a tirarle sul marciapiede, facendole cozzare l’una contro l’altra, inventando tutti i modi possibili per farle rotolare sull’asfalto e creando combinazioni sempre nuove.
Quel bambino aveva ragione: era davvero divertente.
Ancora un po’, poi me ne vado a scuola. Non m’importa di arrivare in ritardo, tanto ormai verrò bocciato a prescindere dalla frequenza, pensò.
Dopo qualche minuto, però, cominciò a dimenticarsi della scuola. E non solo della scuola, ma anche dei suoi genitori, del suo curriculum, del suo futuro. Nei suoi pensieri c’erano solo quelle biglie di vetro.
“Allora, vuoi rimanere qui a giocare con me?” chiese il bambino a Giacomo.
“Sì! Certo! Quanto vuoi”.
Cominciarono a giocare, le biglie rotolavano, sbattevano, mandavano riflessi azzurri, gialli o rossi a seconda del colore sotto il sole mattutino. Il tempo passava e Giacomo piano piano si dimenticò di ogni cosa: erano le biglie ora la sua priorità. Le biglie non gli davano insufficienze, non lo sgridavano né gli procuravano delusioni. Era la cosa più bella che avesse mai provato.
Passarono ore senza che egli se ne accorgesse e, quando tornò a volgere gli occhi al cielo, il sole aveva cambiato posizione. E lui era ancora lì, inginocchiato accanto al bambino che faceva rotolare le palline di vetro nel cemento, con le gambe che gli formicolavano in maniera fastidiosa. Si sentiva come se si fosse svegliato dopo un lungo sonno. Si stiracchiò le braccia, emettendo grugniti di soddisfazione.
“Devo andare via”, annunciò al suo compagno di giochi.
“No, ti prego”, rispose questi. “Resta”.
“Non posso, mi aspettano”.
Il bambino si alzò di scatto, gli occhi scintillanti d’ira, le mani strette a pugno. “No! Avevi detto che restavi!”.
Giacomo si allarmò: non aveva previsto una reazione simile da parte di quel suo piccolo amico. Si sentiva in imbarazzo, così optò per la scelta più rapida ed indolore: afferrò lo zaino, si alzò in piedi e cominciò ad andarsene.
“Ehi, fermo! Fermo!”.
Giacomo non si fermava. Il bambino continuava a gridare, ma lui cercava di non far caso alla tentazione di tornare indietro e, imperterrito, camminava in direzione di casa sua.
Dopo qualche istante, un proiettile di vetro lo raggiunse alla nuca: il bambino gli aveva scagliato addosso con forza la sua biglia, quella con la spiaggia, e Giacomo rovinò pesantemente a terra, battendo la testa sul marciapiede. Svenne.
“Giacomo, svegliati! È tardi, forza!”.
Era a letto, nel suo letto. Sua madre lo stava scuotendo per una spalla, intimandolo a tirarsi su dal letto per andare a scuola.
Il bambino, le biglie, la caduta… erano tutti un sogno.
“Io a scuola non ci vado”.
“E perché, sentiamo?”.
Giacomo tacque per un istante, poi prese un profondo respiro, si alzò a sedere e trovò il coraggio di dire a sua madre:
“Mi vogliono bocciare. Sono la vostra delusione, non vi ho mai resi orgogliosi di me”.
Lei non rispose. Rimase qualche attimo in silenzio, poi sospirò e fece una carezza al figlio. Era una carezza tenera, il gesto di chi vuole farti capire che ti vuole davvero bene, nonostante tutto. Era la carezza di una mamma.
“Giacomo”, cominciò con dolcezza. “Non ci vergogniamo di te, per niente. Tutti hanno dei difetti, il tuo è… sì, insomma, la scuola non è proprio il tuo forte. Ma non importa, noi ti vogliamo bene lo stesso”.
“Ma papà ieri…”.
“Papà era arrabbiato, ha detto cose che non pensava. Devi stare tranquillo, ci parlerò io. Su, forza, vai a scuola. Fallo per me… ma fallo anche per te”.
Giacomo non sapeva cosa replicare. Diede un veloce bacio a sua madre, anche se se ne vergognava un po’ (era pur sempre un adolescente, dopotutto) e scese a fare colazione.
Alla fine a scuola ci andò davvero. Si sentiva il cuore pesante, ma continuava a ripetersi nella mente le parole di conforto di sua madre, per riuscire a trovare la forza di affrontare quella giornata.
Ad un certo punto una voce lo chiamò:
“Ehi, tu! Vuoi giocare con me?”.
Giacomo rabbrividì nell’udire quella voce. Stavolta però non si fermò e continuò per la sua strada.
Non voleva più sentir parlare di biglie di vetro.