“La donna è una creatura deliziosa, penso che dipingerò la donna” Edvard Munch
Ci sono posti nel mondo che si prestano, più di altri, ad essere luoghi d’elezione e teatri privilegiati – e la parola teatro non è casuale – per l’affermarsi dell’evoluzione dell’animo umano nelle variegate forme assunte nell’arte.
Uno di questi luoghi è la Scandinavia, in generale, e la Norvegia, in particolare. I suoi paesaggi desolati, malinconici, dove la natura è smisurata e incombente, ne fanno la terra in cui si compie una grande rivoluzione, prima che culturale, umana, nella quale le inquietudini dell’uomo di fine XIX secolo – inizio XX secolo, culminanti in quell’Urlo di Munch che scuote il paesaggio e la natura stessa, si manifestano con maggiore violenza, tanto da determinarne, allo stesso tempo, il momento di rottura e il punto di svolta poiché “Non è facile essere un essere umano!” sintetizza Strindberg.
Ne sono protagonisti tre personaggi straordinari la cui inclinazione artistica oscilla sempre fra immagine e scrittura mentre quella mentale tra slanci vitalistici e crisi esistenziali. Ad accumunarli, oltre all’indagine approfondita dell’animo umano, c’è l’insistenza con cui approdano al soggetto che più di ogni altro si fa portatore di questi temi, centro nevralgico di ogni interrogativo, anello di congiunzione tra istinto e razionalità, tra passato e futuro, tra la dimensione materiale e quella spirituale, tra la vita e la morte: la donna.
In questo contesto lo svedese August Strindberg, se da un lato è contestatore socio-politico, strenuo difensore della libertà di pensiero e di parola, innovatore del dramma – che considera il suo mezzo d’espressione più importante nonostante sia anche giornalista, romanziere, poeta e perfino pittore e fotografo – dall’altro realizza il suo percorso d’innovazione di pari passo con l’evolversi della sua vita sentimentale. L’amore burrascoso con la prima moglie Siri von Essen, aspirante attrice dell’alta società finlandese, sempre a metà tra amore e odio, desiderio e repulsione, ispira Autodifesa di un folle (1888) che, nato con l’idea di denunciare la depravazione della moglie, gli si ritorce contro, svelando invece la sua gelosia morbosa, la monomania, fino a quella misoginia che lui respinse con forza ma per la quale verrà etichettato in tutta Europa. Questa non fu altro che l’escalation di uno stato d’alterazione mentale che si era già manifestato all’uscita della raccolta di novelle Sposarsi (1884-1886) che, contenenti attacchi contro la donna e il matrimonio, gli era valsa l’accusa di blasfemia, accusa dalla quale era stato poi assolto ma che lo aveva fatto diventare ancora più paranoico. In uno dei racconti, intitolato “La casa delle bambole”, aveva anche dato la sua secca risposta al dramma di Ibsen.
La sua visione sprezzante della donna s’acuì con la crisi coniugale contemporanea alla nascita del movimento femminile. Dopo il divorzio, visse un breve matrimonio con la giornalista Frida Uhl a Berlino e a Parigi quella che fu chiamata crisi di Inferno, uno stato patologico fatto di allucinazioni e manie di persecuzione. Rasserenatosi tornò in Svezia dove sposò l’attrice Harriet Bosse, terzo breve matrimonio, prima dell’ultima relazione con l’attrice Fanny Falkner. Tutti questi disastri sentimentali non fecero che ispirare le figure femminili negative dei suoi drammi e, sebbene non si dichiarasse contrario alle donne ma solo al movimento delle donne dal quale si sentiva perseguitato, non poté evitare di dire la sua in L’inferiorità della donna rispetto all’uomo (1890) che pose fine ad ogni equivoco in merito. Non è un caso che ad uno dei suoi personaggi più noti, La signorina Giulia (1888), faccia dire: “Amavo mio padre, ma presi le parti di mia madre, perché non conoscevo le circostanze. Avevo appreso da lei ad odiare e diffidare degli uomini – lei odiava gli uomini. Ed io giurai che non sarei mai stata schiava di un uomo”.
L’immagine della donna che logora l’uomo, seducendolo e poi disprezzandolo, si trova in molte litografie del pittore norvegese Edvard Munch che con Strindberg ebbe un intenso rapporto d’amicizia nel periodo berlinese. Ne La gelosia (1907) per esempio, una donna dal sorriso beffardo, guarda sarcastica due uomini dal volto consumato dal dolore e La donna distesa (1912), con la sua chioma nera e scarmigliata, ha perso il suo erotismo e non è che una volgare strega che danza e si contorce proprio come la figura femminile di Due persone (1899) i cui quei capelli fulvi altro non sono che i tentacoli di una medusa. La donna si fa seduttrice diabolica, creatura infernale, portatrice di un piacere distruttore poiché “Ciò che è piacevole è peccato”, scrive Strindberg. Munch sembra dare vita alle figure femminili che inquietano l’animo del drammaturgo e ne L’Inferno – Autoritratto (1903) quell’ombra nera che emerge dal fondo sembra una di quelle donne non proprio angeliche raccontate nei suoi drammi.
Come ha scritto Giulio Carlo Argan, Munch “porta con sé il sentimento tragico della vita, che pervade la letteratura scandinava: Ibsen ma soprattutto Strindberg. (…) L’amore diventa ossessione sessuale, la vita morte. La rappresentazione stessa deve in un certo senso autodistruggersi: la parola deve diventare, o tornare ad essere, urlo. Il colore deve bruciarsi nella sua stessa violenza: non deve significare ma esprimere.”
Com’è stato osservato, in Munch “il dramma si consuma in uno spazio limitato e saturo…affine ai drammi di Ibsen…la concezione dello spazio di Munch si rivela spesso identica a quella del dramma naturalistico.” E così, se da un lato Henrik Ibsen cerca di liberare Nora dalla sua Casa di Bambola (1879) dove vive, all’apparenza, un’esistenza privilegiata, tutelata, fiabesca sotto l’ala protettrice del marito, preferendo la verità e la solitudine dell’anima ad una finta felicità – ponendosi quindi come un eroico sovvertitore della società chiusa e moralista scandinava di fine Ottocento – Munch, dall’altro, indaga l’animo femminile con delicatezza, comprendendo quanto la donna, in qualità di figlia, moglie, madre sia più soggetta all’ordine imposto dalle convenzioni sociali e dalla morale, conscio che proprio dalla consapevolezza della donna potrà scaturire un processo di liberazione e di evoluzione dell’animo umano e quindi della società. Ne sa qualcosa la fanciulla di Pubertà (1894) che assiste ai cambiamenti del suo corpo e l’affermarsi della sua femminilità con sguardo attonito, mentre un’ombra, il presagio del suo futuro angoscioso, incombe su di lei e la donna de La danza della vita (1899-1900), che fluttua in trance con l’uomo, come se la sua identità non possa che risolversi nell’unione con lui. Appare evidente che nella visione di Munch la donna è tanto creatura deliziosa quanto essere che attira e respinge. L’uomo, infatti, se cede all’amore perde se stesso ma se si chiude nella solitudine resta uno spettatore della vita. Esiste una incomunicabilità tra i sessi che si risolve solo nell’atto sessuale che non dona, tuttavia, che una felicità di breve durata.
A risolvere questo dramma c’è la Madonna o Donna che ama (1894-1895) che assomiglia tanto alla Rita de Il piccolo Eyolf (1894) di Ibsen, figura femminile – quasi blasfema, perché si pone nuda a connotare un’immagine sacra – sospesa tra realtà e sogno, tra tenerezza e sofferenza, tra materiale e spirituale, tra energia creatrice e distruttrice, tra vita e morte, come lasciano intendere gli spermatozoi stilizzati che corrono quasi come lacrime lungo la cornice e il feto raggomitolato nell’angolo.
La donna è rappresentativa, infatti, di quella continuità dell’esistenza quel “mistero tremendo e affascinante“ che attira e respinge, come le donne uscite dalla penna di Ibsen e dal bulino di Munch, in riva al mare o sul ponte, tutte ugualmente solitarie, impenetrabili, indipendenti, distaccate, irraggiungibili in quella superiorità spirituale che il drammaturgo e lo scrittore attribuiscono loro, superiorità che diventa coscienza e consapevolezza di sé nelle tre età della vita di Donna (1895 e 1899) dove le donne appaiono sicure e forti, nonostante tutto.
Nel 150° anniversario della sua nascita, l’artista norvegese è celebrato in tutto il mondo e in Italia con “Edvard Munch. La grande mostra a Palazzo Ducale” (Genova, dal 6 novembre 2013 al 27 aprile 2014) un appuntamento imperdibile con un artista che tanto ha contribuito ad innovare e diffondere l’immagine dicotomica della donna. Straordinariamente moderno ancora oggi.