«Vuoi uscire tu?», «Oggi ridiamo». Ridiamo sì, ridiamo davvero. Ride l’insegnante, abbozza un sorriso, quello di chi «sì, lo so che oggi ridiamo: è proprio quel che volevo. Mi sono alzata di cattivo umore e ho voglia di ridere, ridere di qualcuno». Io quel sorriso l’ho sempre interpretato così.
Si era alzata davvero di cattivo umore: le capitava a volte, come a tutti. Mattina a scuola, poi bloccata lì per un Collegio Docenti di quelli che non finiscono mai: tre ore previste, eppure le 18 erano passate da un po’ e le sembrava di aver iniziato poco dopo pranzo. «Grazie mamma per avermi accompagnato a comprare le scarpe da ginnastica», aveva esordito sua figlia vedendola rientrare: la aspettava sul divano, di spalle, seduta davanti alla TV. La aspettava per andarsene: «come faccio domani? Non ho le scarpe, io non ci vado a scuola». Capelli neri sulle spalle che in quel momento erano solo una nuca, educazione fisica il giorno successivo e un paio di scarpe che a dodici anni sembravano davvero di vitale importanza per uscire fiera dallo spogliatoio. Le piaceva la ginnastica: in fondo giocava a pallavolo da quando di anni ne aveva sei. L’aveva accompagnata la mamma in palestra, il pomeriggio del terzo giorno di scuola: erano arrivate un po’ in ritardo perché anche lì, serviva prima un paio di scarpe. Erano rosa allora. All’indomani però, in palestra la aspettavano i fondamentali della pallacanestro: il pretesto per giustificarsi sembrava perfetto.
Inutile cercare di spiegare – come se avesse dovuto farlo -, inutile raccontarle che il Collegio aveva sforato, che non si trovava un accordo sulla metà dei punti previsti, inutile ripetere che da lì non se ne poteva andare, inutile. Come spiegarle che là dentro, in quell’Aula Magna di metà ottobre, faceva freddo, che probabilmente era stata raggiunta anche da qualche linea di febbre? Come spiegarle che al preside sembrava non importare che fuori fosse già buio, che il pensiero di chiunque altro là dentro fosse che a casa non avesse nulla da fare? E forse era vero, forse non voleva tornare a casa, forse avrebbe potuto placare gli animi dei presenti o fare qualche sondaggio nei giorni precedenti almeno su un paio di punti; forse a casa non aveva nessuno. Forse aveva una moglie che non lo guardava più da anni e un figlio che, in maniera poco scaltra, gli mentiva sugli esami all’università. Aveva scelto di studiare Economia e Commerci, come suo padre ventisette anni prima: al terzo anno raccontava di aver superato tutti gli esami del secondo, tre in realtà, idoneità informatica inclusa. Non gli piaceva l’economia, non gli piacevano i numeri, le tabelle, i bilanci, la precisione: gli piaceva il blues, gli piaceva chiudersi in camera e suonare, gli piaceva uscire e suonare, macinare kilometri per trovarsi schiacciato in qualche piccolo locale lontano, tirare fuori la chitarra e suonare. O ascoltare chi ne sapeva più di lui. Non poteva mentire, l’aveva pensato anche lei che non avesse nulla da fare a casa: non aveva una figlia e un paio di scarpe da comprare, o un marito che sarebbe rientrato aspettandosi di di trovare una cena, quarantatré – quarantatré – compiti da correggere, mettendosi quarantatré volte le mani tra i capelli, quei capelli che avrebbe dovuto spuntare da almeno un paio di settimane: ma quando? Senza parlare delle pile di panni da stirare e di un bimbo di sette anni con dei compiti da finire e la pretesa di una fiaba prima della nanna.
Si era alzata effettivamente di cattivo umore, alle 5.30 per svegliare il marito che partiva per lavoro, dopo quattro ore di sonno: verso l’una i compiti corretti erano solo trentuno, ma la vista – e la testa – se n’erano andate. Con la consapevolezza del rimprovero che l’avrebbe attesa il mattino successivo, da parte di alunni con più pretese che voglia di rimediare. Effettivamente di cattivo umore, alzando gli occhi dal registro , l’aveva guardata e le aveva chiesto: «vuoi uscire tu?». Nessun sadismo, nessuna voglia di ridere. O meglio, avrebbe riso volentieri, per qualcosa di bello, di buono. Non certo per la massacrante autoironia di un’alunna che, come previsto, il giorno prima non aveva aperto il libro. Eppure, anche se non sembrava così, lei quel libro l’aveva aperto il giorno prima, e quello prima ancora. Ci aveva provato, senza capire che provare non basta; non basta aprire il libro e leggere, cercare di capire e alzarsi al primo ostacolo. Non lo chiudeva qual libro, non lo chiudeva mai. Fino al momento di metterlo nello zaino per tornare a scuola, in ritardo come sempre: perché quegli ultimi minuti sembravano sempre così preziosi, così necessari. Si alzava, mi alzavo. Un po’ di TV, magari mi fa compagnia. Mangio un biscotto, due finisco la scatola, telefono a qualcuno , faccio una pausa. Una pausa da cosa? Dal vuoto? Dal vuoto. Vado in bagno, torno, mi siedo, riprovo. Riprovo, sottolineo, trascrivo. Non ci riesco, mi sento sola, qui mi sento sola. Non c’è nessuno, mi sento sola. Non ci riesco, perché perdo tempo? Mi annoio, non sono abbastanza, non riesco, non fa per me.
«Non si impegna», lo dicevano ogni volta, ogni colloquio la stessa storia. Non si impegna. Non mi impegno, dev’essere vero. Ogni volta che, a casa, aspetto che torni mia madre. Tonerà? «Mi hanno detto che non ti impegni. Ma va?». Ma va? Non mi impegno, ma per chi? Qui non c’è nessuno. Vuoto. Vuoto che riempio di senso di colpa: con qualcosa dovrò pur riempirlo il vuoto. Il vuoto che riempio di biscotti, il vuoto che non sa riempire mia madre. Il vuoto che non mi ha insegnato a riempire: di voglia, di passione, di coraggio, di stima, di parole, di fiducia, di «dai che leggiamo insieme», di quel prendere i problemi – e che problemi – a cuor leggero: che in quel cuore tanto leggero – leggero perché pieno, il contrario di vuoto – stava la chiave. La chiave del «chi ben comincia è a metà dell’opera» che certo non mi aveva mai insegnato mia madre: ma in fondo nessuno prima l’aveva insegnato a lei. Me l’aveva insegnato Mary Poppins, ma io non l’avevo troppo ascoltata. Quando da piccola venivo messa davanti alla TV, da sola; la TV che mi teneva buona. E io stavo buona lì, non chiedevo, non mi opponevo. Avevo imparato a non chiedere, non mi era permesso: le mie domande – pare – erano stupide e non meritavano risposta, due urla nei casi migliori, la risposta di non capire niente. Io ci credevo, credevo a tutto. Ma la chiave? Quella chiave? Come una chiave dorata, piccola come un’unghia, un ciondolo che avevo trovato tra quelli di mia madre tanti anni prima. L’avevo legata al polso e mai più tolta. Un regalo di mia madre? Non ricordo nemmeno se sia andata veramente così. Prendila pure, o posso prenderla? Poco importava ormai: era stata di mia mamma e ora era mia. La chiave che mancava, che continuava comunque a mancare.
La chiave che guardo anche ora, seduta alla scrivania: un libro aperto sulla stessa pagina da un’ora buona. Controllo, la stessa pagina. Controllo la chiave, la giro tra le dita. Controllo. La chiave non c’è, non c’è più. Una scusa per alzarmi, vado in bagno, salgo, scendo, ma dov’è? Dov’è? Smetto di vedere, di sentire. Poi sento, un ventilatore, più forte. Non sento, non vedo. Cado. Dov’è? Dove sono?
La sveglia. Sei in punto, la sveglia. Mi alzo presto ora. A scuola per le otto, ma mi sveglio alle sei. Sono passati dieci anni, su per giù. A scuola ci vado ancora, anche a quei Collegi Docenti che sembrano non finire mai. A scuola, mi distraggo durante la verifica. Fisso il mio polso nudo, la chiave non c’è: non c’è più davvero. L’ho tolta un paio d’anni fa. L’ho tolta quando ho capito di non essere pronta per portarla. L’ho tolta in attesa di poterla portare, di saperla portare. Fisso il polso nudo, alzo gli occhi e fingo di non vederla copiare: me ne ricorderò mentre correggo. Anzi no, mentre correggo mi ricorderò del giorno in cui le ho chiesto di uscire alla lavagna e ho ricevuto uno schiaffo, un «oggi ridiamo». Mi ricorderò di quando non avevo riso, e non l’avevo mandata a posto col tre che si sarebbe meritata. Era sembrata una tortura: una spiegazione indotta ed estorta a una ragazza che effettivamente sapeva niente. Quaranta minuti alla lavagna, un inferno in cui lei non si era mai addentrata: si era sempre fermata a quella prima pagina, la prima di quelle pagine che a casa, da sola, non riusciva a girare.
L’avevo tolta un paio d’anni prima quella chiave, il giorno in cui avevo capito di non essere ancora pronta per portarla. La sera di quel giorno – A hard day’s night? -, quel giorno difficile in cui mia madre, finalmente dedicata ad un approccio alla tecnologia, mi aveva chiesto di aiutarla ad inserire un pedice nel testo da preparare per la lezione di computer. L’avevo tolta poi, sorpresa della mia risposta, così diversa dalle risposte che avevo imparato ad aspettarmi e che non avrei dato mai più. Che faccio, rido? La aggredisco? Glielo dico e basta così taglio corto e me ne vado? «Come lo metto il pedice?»: le dico che non ho tempo? «Come lo metto il pedice?»: guardo la chiave, guardo mia mamma, «fammi un po’ di posto, prendi il mouse e seleziona. Poi ragiona: dove vai?». Stupita da una risposta che nemmeno lei conosceva, mia madre aveva preso il mouse e inforcato gli occhiali, si era avvicinata allo schermo e aveva snocciolato una raffica di deduzioni che un paio di urla in effetti le avrebbero anche meritate. Guardavo la chiave, ridevo in fondo.
La sera, finito tutto, prima di andare a letto l’avevo tolta e messa in un cassetto. Credo che lei non se ne sia nemmeno accorta: credo che tutt’ora non se ne sia accorta. Stasera la tolgo, avevo pensato. Ho capito cosa apre. Così apro e la tolgo. Apro qualcosa che doveva essere leggero, ma era chiuso e pesante. Farà male ora, ma deve stare aperto.
Fa male, fa ancora male. A volte è leggero, ma fa male. Fa male ogni volta che che ridono, fa male ogni volta che urlano, fa male ogni volta che penso «oggi ridiamo». Fa male ogni volta che non hanno tempo e fa ancora più male quando sono io a non averne. A volte fa male, sono ancor sola a volte e non riesco a girare pagina. Non riesco a scrivere la prima riga di quella pagina bianca e quel cursore mi rende cieca e sorda. Poi sento e il rumore cresce, come un ventilatore. Più veloce. Passano ore a volte, poi finisce. Passa, passa anche il male come le ore. Passa e comincio: comincio e ben comincio. Ed è allora che fa bene, che è leggero e fa bene. E ho fatto bene.
Farà ancora male, poi bene. Sarà così per sempre credo, mi piace sia così: mi piace credere che il male un giorno farà un po’ meno male. Non bene, meno male: quel tanto che basta per non riuscire a girare pagina, scrivere la prima frase, alzarmi e andare ad aprire un cassetto.