“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa… A fumare nel buio soprannaturale di soffitte ad acqua fredda fluttuando nelle cime della città, contemplando jazz… Ho visto le migliori menti della mia generazione che mangiavano fuoco in hotel ridipinti, che vagavano su e giù a mezzanotte per depositi ferroviari chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati.”
Allen Ginsberg, Howl
Leggi certe parole, e non credi che possano essere reali. Le leggi, e il confronto con le semplici vite ordinarie di sempre è inevitabile. Non puoi farci nulla, non esistono scappatoie, o forse sì. Ecco allora che tornano alla mente certe reminescenze letterarie, di quando in libreria scegliesti quel libro – On the road – perché tanto ti attirava l’idea di conoscere un mondo che probabilmente mai avresti tastato con mano e che divenne baluardo del mondo in cui fu ideato e scritto. I tuoi ricordi di epoche mai vissute vanno così indietro, e si fermano al 1947: cominciava allora a bruciare la fiamma della beat generation, che divampò nei locali americani (di New York, in particolare) nella forma di una protesta anticonvenzionale alle regole del conformismo del dopoguerra, che era il periodo delle discriminazioni sessuali, del capitalismo crescente, e dell’altrettanto crescente potere dei media. Alcuni dei ragazzi che erano o sarebbero diventati le firme più autorevoli del movimento andavano crescendo, come cresceva la maggior parte dei ragazzi della società del tempo, e cioè tra conoscenze scolastiche e nuove scoperte di vita, e – per i più fortunati – tra ispirazioni illuminanti e fiumi di parole. Tra questi, Allen Ginsberg, classe 1926, proveniente dal New Jersey, con padre professore e poeta e madre affetta da una malattia psicologica mai correttamente diagnosticata, è uno studente della Columbia, una matricola per l’esattezza. Conosce Lucien Carr, che lo presenta ad alcuni scrittori, tra cui John Clennon Holmes, William Borroughs, Jack Kerouac. È stato proprio Kerouac, in una conversazione col Clennon, ad aver attribuito l’accezione di ottimista, beato alla parola beat. Egli disse che: «la beat generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo». Ed è forse di lì, da quell’idea, che nasceva quell’impulso, quello slancio verso la vita, cui si accompagnava quel desiderio di salvezza, di amore, di eternità.
Ma il beat era anche il battito, il ritmo del jazz che veniva suonato e quasi vissuto, in posti come il Greenwich Village, che avrebbe resistito anche dopo la morte dei più ‘assidui’ suoi frequentatori. All’epoca si riteneva che la letteratura e l’America in generale reclamassero una ‘nuova visione’, come aveva sostenuto Arthur Rimbaud, cui Ginsberg era stato avvicinato da Neal Cassady, altra figura esemplare di quei tempi. Chi più, chi meno, tutti rivoluzionarono il loro stile di vita, trasformando il concetto stesso di stare al mondo; essi si fecero autori di comportamenti spesso provocatori, di scelte azzardate, di viaggi indescrivibili. Il viaggio per eccellenza è quello Sulla strada, raccontato da Kerouac in un tale impeto di ricordi da non poter non aver lasciato il segno.
“Le nostre valigie logore stavano di nuove ammucchiate sul marciapiede; avevano altro e più lungo cammino da percorrere. Ma non importa, la strada è vita.”
E la loro vita era stata davvero così esaltante come leggi, e li aveva visti vivere come stelle cadenti la cui luce era stata accecante.