Quando entrava lei, il campanello che tintinnava ogni volta che qualcuno apriva la porta aveva un suono diverso. E l’aveva perché annunciava una fresca ventata di gelsomino, una sciarpa dai colori tenui ed un sorriso discreto che chiedeva gentilmente il permesso di entrare e mischiarsi al profumo dell’inchiostro stampato sulla carta dei libri.
Appariva proprio buffa lei, con gli occhiali spessi ed i capelli raccolti in una stretta coda di cavallo dietro la nuca. Era così bassa che la maggior parte delle volte, per raggiungere i libri sullo scaffale, doveva chiedere aiuto ed io le davo sempre una mano, sentendomi importante per una cosa così stupida come riuscire ad afferrare un libro in alto senza l’ausilio della scala. Era così lei, riusciva a farmi sentire diverso, mi trasformava in un ragazzo che non aveva nulla a che fare con il giovane laureato in filosofia che lavorava in una libreria. Si chiamava Celeste ed io l’ho sempre associata alla luce e ai fiori di ciliegio e alle giornate passate a leggere Proust al parco. Quando entrava lei, arrivava la primavera.
La prima volta che ci siamo parlati io non lavoravo lì da molto: mi stavo occupando di certi scatoloni ricolmi di volumi pesanti e riflettevo su quanto il mio compito in quella libreria fosse più simile a quello di un mulo da soma che di un libraio. Sentendo il tintinnio del campanello alla porta mi scappò un’imprecazione tra i denti e rimasi per un attimo immobile a riflettere se dovevo correre dal nuovo cliente oppure continuare a fare quello che avevo cominciato. Optai per la seconda scelta e ritornai ad affaccendarmi al mio pesantissimo scatolone.
La cliente era Celeste, ma quel giorno non sapevo ancora chi era e non potevo conoscere il suo modo di entrare in libreria: al di fuori di quel luogo si sentiva sempre goffa e camminava guardando il pavimento per non incrociare lo sguardo dei passanti, ma in mezzo ai libri si sentiva a casa. Dal primo istante in cui poggiava piede dentro la libreria il suo viso si illuminava ed i suoi occhi osservavano gli scaffali ricolmi di pagine stampate e rilegate in eleganti copertine dai colori più vari. Poi prendeva un lungo respiro per inalare sino in fondo quel dolce profumo di libri, come un fumatore che assapora la prima boccata della sigaretta che si concede dopo settimane di astinenza. E sorrideva involontariamente, beandosi del calore che quel luogo familiare le trasmetteva, della tenerezza che i libri le regalavano ogni volta. Dopo che l’ebbi conosciuta la osservavo ripetere questo rituale ogni volta che tornava in libreria, naturalmente senza farmi vedere: la sua riservatezza avrebbe sicuramente frenato i suoi gesti e lei non avrebbe sorriso come invece faceva sempre. E non avrei saputo immaginarla senza quel sorriso.
Il giorno in cui la conobbi entrò silenziosamente, come una ladra che non vuole farsi sentire, e quando si avvicinò a me sobbalzai dalla sorpresa.
“Scusa…”, mi chiamò quasi sussurrando, temendo di disturbare la quiete in un luogo che considerava sacro. Non ebbe esitazioni, mi diede subito del tu e non si curò del fatto che ero alle prese con il mio maledetto scatolone. Sbuffando lo poggiai a terra e mi dovetti chinare leggermente per guardare in viso quella strana ragazza. Sembrava proprio un topolino di biblioteca, piccola e con gli occhiali spessi davanti agli occhi grandi color nocciola. La fissai incuriosito, aspettando di capire cosa volesse.
“Ho bisogno di un libro, ma è nello scaffale in alto e non ci arrivo. Mi daresti una mano per piacere?”.
Potevo forse dirle di no? Annuii e lei mi guidò silenziosamente verso la zona dei classici, indicandomi uno spesso volume posizionato molto in alto. Lo afferrai e glielo porsi: era Anna Karenina, di Lev Tolstoj.
“Dimmi, è bello?”, mi chiese. Rimasi per un attimo interdetto nell’udire quella domanda inaspettata e lei mi fissò lungamente, aspettando trepidante che io le svelassi qualcosa sul romanzo che stava per acquistare. Fui così preso alla sprovvista che dissi la prima delle cose più stupide che mi passarono per la mente:
“Se ami i mattoni, sì”.
Celeste ammutolì per un istante, poi scoppiò a ridere di cuore, realmente divertita da quella dozzinale battuta che avevo pronunciato quasi senza rendermene conto.
Avevo sentito numerose leggende metropolitane su uomini che si innamorano nell’esatto istante in cui ascoltano la risata di una donna, ma non ci avevo mai creduto. A dire il vero non ci credo nemmeno ora: Celeste rise ed io non mi innamorai nell’udirla, però… Da quel momento in poi non me la levai più dalla mente.
Passavano le settimane ed io mi resi conto di provare del vero affetto verso quella ragazza timida e riservata, che non parlava mai di sé stessa e che riusciva ad essere disinibita solo quando le chiedevo cosa stava leggendo. Mi piaceva farla ridere, perché quando rideva era bellissima.
Perché non le chiedevo di uscire? Non lo so. Forse mi bastava così, divertire i suoi pomeriggi con battute sciocche, osservare il sorriso che le illuminava il volto come una fortissima luce. O forse avevo paura che rifiutasse. Non ci pensavo proprio.
Cominciai a pensarci solo quando mi ventilarono la possibilità di un nuovo lavoro a quasi duecento chilometri da lì: mi sentii orgoglioso di poter finalmente prendere la strada che sognavo e fui lì lì per accettare seduta stante l’incarico, ma all’ultimo esitai. E Celeste?
Rimasi tutta la notte insonne a riflettere sul da farsi, ma in fondo non fui io a scegliere.
Il giorno dopo Celeste venne in libreria, ma stavolta non era sola: una bambina che avrà avuto cinque anni la seguiva, stringendosi forte all’orlo del suo cappotto, intimorita. Entrarono insieme ed io osservai come la piccola sgranava gli occhi e si guardava attorno come se volesse divorare con lo sguardo tutto ciò che la circondava. Sembrava intimidita da tutti quei libri e si aggrappò al braccio di Celeste come un naufrago che stringe a sé la scialuppa di salvataggio che l’ha reso un superstite e non una vittima.
“Mamma, dove siamo?”, chiese la bambina.
“Nel posto più bello del mondo”, rispose Celeste. Mi rivolse un’occhiata ed io sorrisi, mio malgrado.
“Mamma, perché il signore ha i buchi sulle guance?”.
“Non sono buchi, Anna, sono fossette. Ce le ha perché gli angeli l’hanno pizzicato mentre dormiva”.
Io e Celeste ci guardammo e scoppiammo a ridere, ma questa volta la risata fu diversa: da parte mia fu amara, mi lasciò uno strano gusto in bocca che sapeva di malinconia. Provai la stessa sensazione dello studente quando ritorna l’autunno o quella dell’uomo che deve lasciare la donna che ama.
Parlai poco con Celeste quel pomeriggio, perché lei passò tutto il tempo a mostrare libri a sua figlia ed io rimasi ad osservarle. Che strano, non avevo mai fatto caso che portasse la fede.
Celeste scelse uno dei romanzi appena usciti, mentre la piccola mi porse un libro illustrato. Li misi in un sacchetto e dissi alla mia amica che avevo trovato lavoro e me ne sarei andato ad abitare a duecento chilometri da lì.
Lei mi fece i complimenti stringendomi la mano e mi augurò tutto il bene possibile. Sorrideva e non sembrava triste del fatto che non ci saremmo più rivisti.
Prima di andare mi pose un delicato bacio sulla guancia, come un addio. Poi prese la mano di sua figlia ed uscì, facendo tintinnare il campanello.
Non trovai mai più nessuna donna che ridesse alla stessa maniera di Celeste.