Se accumulare conoscenze fosse l’unico obiettivo di questo corso io non lo so, fatto sta che la mia dose di buonumore non stava di certo aumentando. Di questo passo, dopo aver frequentato stanze silenziose e “bar-farmacia”, non mi sarei stupito se il prossimo incontro fosse avvenuto in un cimitero. Volevo qualcuno che desse un tocco di brio a queste lezioni, che risvegliasse in me l’antico spirito del buontempone. “Uno scrittore che facesse ridere. Sì, ci voleva proprio uno scrittore che facesse ridere”- pensai ingenuamente, ignorando che questa frase avrebbe potuto essere facilmente fraintesa. Certo, di scrittori che fanno ridere, forse ce ne sono pure molti, e non sono io a dirlo, ma nel senso buono del termine credo che il cerchio si restringa, e di molto pure. Ne parlai il giorno stesso al Generale dei letterati che senza esitazioni mi diede una sola risposta: Stefano Benni. Venni a sapere che la sera seguente avrebbe partecipato ad una gara di barzellettieri in un paesino vicino Bologna. Non potevo sperare di meglio. Appena arrivato fui colpito dallo striscione ai piedi del palco. Recitava così: “Qui non è un campo da tennis, ma si fanno battute lo stesso”. Capirete adesso che, quando poco prima ho detto “colpito”, non era in senso metaforico. Frattanto la gara era cominciata, i concorrenti si alternavano ed il pubblico, rumoroso, sghignazzava e si agitava. Io, vi confesso, proprio non riuscivo a ridere. Ma proprio quando stavo cominciando a chiedermi se il mio senso dell’umorismo fosse andato a farsi benedire, arrivò la mazzata. Fu lo stesso Benni a darmela quando, salito sul palco, ebbe il coraggio di dire: “Cara, dove vuoi che andiamo in vacanza quest’anno?” “A Bora Bora, caro” e il marito: “ho capito, ho capito, non c’è bisogno di ripetermelo due volte!” Agghiacciante, ma credo sia un eufemismo! Non era di questo avviso il pubblico, però, che scoppiò in una risata fragorosa e più tardi mostrò anche lui un certo coraggio nel decretare la vittoria di Benni il quale, come da accordi, venne subito da me una volta ritirato il premio. La storia dell’umanità non ricorda complimenti più falsi di quelli che gli feci io, ma non ero certo nella posizione di non farli. Il tono in compenso dovette risultare meno affettato perché ringraziò, visibilmente commosso.
“Cosa sono i motivi e i temi di un testo?”- domandai. “Il motivo”- disse – “ corrisponde ad una unità significativa minima dell’intreccio; è una precisa situazione narrativa che non è ulteriormente scomponibile. Il tema, invece, deriva da una combinazione di motivi e corrisponde ad una induzione fatta dal lettore. Il tema è il risultato delle conoscenze e delle abilità interpretative del lettore. E’ stato anche definito come uno schema o un oggetto intorno al quale tende a costituirsi e a svolgersi un mondo e come filo conduttore delle varie parti di un testo. Per riconoscere i temi di un testo non ci sono norme precise. Non mi resta che farti un esempio”- disse – e, presa da una borsa una copia di Padre Padrone di Gavino Ledda, cominciò a leggere:
“I primi giorni furono per tutti un vero supplizio. Per me, però, fu ancora peggio. Ero abituato a quella libertà pastorale delle montagne che non ammette nel suo mondo né intrusi, né ordini se non dalle sole forze della natura. Cinta di mura invalicabili la caserma mi sembrava un’immensa prigione. Non mi davo tregua. Andavo continuamente da una parte all’altra per i corridoi delle tetre camerate, interminabili labirinti. Una forza inconscia mi spingeva così ad aggirarmi solitario: le gambe appagavano la loro abitudine che avevano contratto nel percorrere le valli, ma nella mente era come se volessi trovare un varco per scappare. Più volte fui tentato di farlo. Ma una sentenza che ci avevano detto mi rintuzzava sempre: – Chiunque abbandona la caserma o non rientra nel tempo stabilito dal regolamento, viene considerato disertore: condannato e rinchiuso nelle carceri militari. Altro che scappare. Fuggire sarebbe stato peggio di fare il bandito.
Ecco, questa parte del racconto può essere considerata come TEMA A che chiameremo OPPRESSIONE DELLA CASERMA. I motivi che ne fanno parte sono: 1.supplizio dei primi giorni; 2. disagio del protagonista; 3.opprimente reclusione; 4.continuo movimento del protagonista nell’edificio; 5.tentazione di abbandonare la caserma; 6.rispetto del regolamento.
Ora continuo con la lettura:
L’unico sfogo allora lo trovavo girovagando nell’impossibilità di poter fare conoscenza. Avevo ancora soggezione del prossimo. L’italiano non lo sapevo parlare che sillabicamente. Dovevo fare il balbuziente senza esserlo. Un vero smarrimento che trovava l’unico ripiego solo nei soliloqui desolati in sardo pensato, dentro quella divisa che mi faceva rabbrividire e che in un certo senso mi impastoiava. Le prime parole che imparai a pronunciare con una certa enfasi furono signorsì e signornò. Solo che all’inizio non sapevo quando bisognava dire la prima o la seconda formula. L’istinto alla fine mi suggerì di usare sempre signorsì. Tutto allora filava liscio, anche se le cose erano andate male. Signorsì per me era divenuta una formula magica e mi evitò molte punizioni.
Ecco qui un secondo tema possibile che chiameremo TEMA B ovvero DIFFICOLTA’ DI COMUNICAZIONE VERBALE. I motivi che ne fanno parte sono: 1.soggezione del prossimo; 2.scarsa conoscenza della lingua italiana; 3.ripiego nei soliloqui in sardo pensato; 4.prime formule imparate e conseguenze.
Questa è l’ultima parte del testo che ti leggo, ascolta:
Il brusco scontro con la nuova vita mi rese ancora più diverso di quello che ero nei confronti degli altri. L’adattamento fu affannoso, come l’apprendimento dell’italiano. Spesso rasentò l’impossibilità e la disperazione. Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero muto e senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva esprimere quello che pensava.
Questo potrebbe essere il TEMA C, AFFANNOSO ADATTAMENTO AGLI ALTRI. Questi sono i motivi: 1.impedimenti nelle relazioni sociali; 2.frequenti momenti di sconforto; 3.astrusità del dialetto sardo per gli altri; 4.impossibilità di dialogo; 5.senso d’inferiorità del protagonista.”
A questo punto mi guardò e con una punta d’orgoglio mi disse: “Soddisfatto?” Sia il brano appena letto che la sua battuta di prima avevano per me lo stesso grado di intensità tragica, ma naturalmente non lo dissi. Mi limitai a pronunciare quel falso monosillabo che si aspettava.