“De gustibus non disputandum est” recita un antico brocardo latino. Sarà sempre vero? Temo di no. Ci sono libri che trascendono dal concetto di gusto personale, a dispetto di una loro presunta intrinseca qualità di capolavoro o meno: devono essere letti. Semplicemente. Perché semplice, permettetemi la stranezza, è un aggettivo estremamente complicato e, in questo contesto, indica un dovere del lettore, colui che dalla carta trae respiro, dall’inchiostro ossigeno, dalle storie vita. Ecco, L’oro di Napoli di Giuseppe Marotta è questo: linfa pulsante e rigenerante e come tale deve essere semplicemente presente tra i libri di cui si è goduto in una vita. Forse la mia veemenza sarà più chiara nel momento in cui confesserò di averlo letto solo ora, e di aver pensato per tutta la durata dei racconti è tardi, l’ho letto tardi, avrei dovuto farlo prima. Non so di preciso quando, ma prima.
“L’oro di Napoli” è una raccolta di racconti già elzeviri (articoli di fondo di un giornale dedicati ad argomenti di carattere letterario, artistico, storico, erudito, spesso con taglio critico) sul Corriere della Sera. Tante storie, tanti personaggi, una sola ambientazione: Napoli e i suoi vicoli. Storie di umanità dove lo stesso popolo è protagonista, che sia la folla di credenti che attonita accorre a guardare il miracolo di una statuetta, che sia l’agglomerato di gente che muta assiste alla scoperta delle corna da parte d’un marito tradito o ancora quell’insieme di individui che fa a gara in spacconeria durante un pellegrinaggio a Montevergine. Eppure, da questo vivo ammasso pulsante, emergono delle figure piuttosto solitarie, come se la farsa cominciasse solo nel momento in cui non vi si è coinvolti, solo allora infatti diventa tragedia, quando ci tocca. Unica eccezione: la morte. Già, perché amore e morte, eros e thanatos, sono parenti prossimi degli abitanti dei vicoli poco illuminati, dove il sole fa fatica ad infiltrarsi, di quei quartieri. Ognuno conosce il rituale tanto del corteggiamento amoroso, quanto del lutto. E riso e pianto si mescolano, e le lacrime a stento si distinguono le une dalle altre. La filosofia del “tiriamo a campare” è solo a tratti divertente, più spesso è desolante ma, con pennellate da vero maestro, Marotta fa irrompere una risata proprio lì, in mezzo alla miseria. Ed è così che “la fenomenologia della pernacchia” si innesta nel racconto dolorosissimo d’un orfano che, nello sberleffo, cela il suo richiamo alla madre. Ed è così che gli ardenti amori invecchiano anzitempo le giovani fanciulle.
“Il più conciso romanzo è un grido; d’istinto la gente dei vicoli drammatizza i suoi effimeri amori, ne fa il romanzo che può, li rende fulminei e dolorosi come uno scatto di coltello”
Marotta in queste storie è così, conciso e a volte incompleto, come spettatore egli non è onnisciente, racconta quel che sa e quel che vede e, perciò, divide con noi nel modo più autentico possibile il suo sguardo sulle vite e le storie di cui ha memoria e notizia. Il più conciso romanzo è un grido, o anche una sola brevissima narrazione che dice tutto senza, per forza di cose, poter dir tutto.
“L’oro di Napoli” è, lo dice lo stesso Marotta, l’opera che ha concesso a lui, giornalista, dignità e credito letterario. Dallo stesso nel 1954 fu tratto il notissimo film omonimo di cui fu regista, e sceneggiatore con Marotta e Zavattini, Vittorio De Sica. Indimenticabili i protagonisti principali: Totò, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Silvana Mangano e De Sica stesso.
Come si fa, in casi come questi a dire, con intellettuale snobismo “è meglio il libro”? Ma poi chi l’ha detto che debba necessariamente scegliersi, tra due opere tanto straordinarie, quale sia la più meritevole. Leggete il libro, se come me avete fatto tardi, rileggetelo se al contrario di me avete capito che il vostro era un dovere, e guardate il film, o riguardatelo. Dovere sì, perché noi tutti abbiamo sempre nei nostri confronti un obbligo specifico e ineluttabile: prendere e godere, ovunque essa si nasconda, dell’autentica bellezza.