Ad Agata piaceva camminare nel viale del giardino pubblico nel tardo pomeriggio, quando i rumori si acquietavano e il silenzio del tramonto copriva le voci degli altri. Lo faceva ogni giorno, all’uscita dall’ufficio. Gli oleandri rosa e bianchi che affiancavano il viale sembravano proteggerla dalle ansie accumulate. Aveva il passo veloce: preferiva evitare ritardi, a casa c’era sempre da fare. Ogni giorno si diceva che l’indomani si sarebbe fermata in quel giardino anche solo per qualche minuto, per sedersi su una panchina e godersi il silenzio in santa pace. E ogni giorno, puntualmente, si accorgeva che non era il caso, meglio lasciar stare. Ma quando il tacco si impigliò tra due sanpietrini, fu costretta a fermarsi. Maledisse ad alta voce se stessa per aver acquistato quel paio di scarpe rosse che le stavano pure strette e si guardò attorno in cerca di aiuto. Non c’era nessuno, il giardino a quell’ora era deserto e il tacco, imperterrito nella sua posizione, non mostrava alcun segno di pentimento. Agata strinse le labbra per non gridare la sua rabbia e tentò, forzando inutilmente il collo del piede, di liberarsi da quella specie di morsa. Ma era troppo stanca per insistere e adesso iniziava a pesarle anche la borsa. Come per miracolo con un colpo secco, senza finire a terra, riuscì a sfilare i piedi dal camoscio rosso delle scarpe e restò scalza. Lasciò cadere la borsa e d’istinto si mise a sedere sulla panchina sotto l’oleandro rosa. Era comoda, più di quanto avesse immaginato. Distese la schiena indolenzita e tirò un sospiro di sollievo. Era così piacevole stare lì seduta, a piedi nudi, mentre le cicale iniziavano a frinire e la luce del giorno pian piano si spegneva. Agata chiuse gli occhi come per continuare ad assaporare nel sonno quella quiete, quanto le sarebbe piaciuto restare sulla quella panchina fino all’indomani o per sempre! Ma era già tardi. Guardò l’orologio, poteva trattenersi ancora qualche minuto; poteva riposare ancora un po’. Sciolse la coda di cavallo e nello stesso momento ricordò che aveva un appuntamento. Avrebbe chiamato per avvertire del ritardo ma tra un po’, quando sarebbe uscita da quel giardino, non appena si sarebbe alzata dalla panchina. Non ora, dopo. Chiuse di nuovo gli occhi
Erano le dieci quando Agata si svegliò. Il viale era appena illuminato dalla luce dei faretti. Si guardò attorno, vide gli oleandri, le panchine vuote e in lontananza il grande cancello del giardino. La salivazione si azzerò quando si accorse che era sbarrato; doveva tornare a casa, c’erano mille cose da fare e poi aveva un appuntamento. Agata fremeva.
Una cicala si appoggiò sul tacco della sua scarpa rossa, Agata la osservò: avrebbe dovuto avere le ali di quella cicala per attraversare le inferriate dei cancelli. E non solo.Ma la panchina era comoda e il silenzio del giardino troppo piacevole per mettersi a pensare a quello che avrebbe dovuto o potuto avere.
Agata chiuse di nuovo gli occhi e si distese sulla panchina, non vedeva l’ora di riprendere sonno. Il mondo fuori poteva aspettare. Un colpo di vento staccò, finalmente, il tacco rosso dal sanpietrino.