Forse è il caso di dirlo: galeotto fu il pappagallo. O meglio: il pimpigallo.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Un pappagallino inciampa o per meglio dire irrompe in volo nella vita di uno scrittore e della sua famiglia. Diventa una presenza amica. Lo scrittore ogni giorno l’apostrofa così: «Ciao bello Pimpigallo, come stai? Mannaggia, mannaggia».
E un’estate, in Toscana, mentre l’amico scrittore è in Sicilia, il “bello pimpigallo” di botto inizia ad imitarlo, cadenza siciliana e toni da fumatore impenitente compresi.
Questa è una storia vera, quella di Andrea Camilleri e del pappagallino che è diventato protagonista di uno spettacolo teatrale, scritto e messo in scena dal regista Rocco Mortelliti, sposato per anni con Andreina, la figlia dello scrittore.
E non basta: ad affiancare “La storia del Pimpigallo”, la riduzione del romanzo di Andrea Camilleri “Maruzza Musumeci”.
“Camilleri in musica”, questo il titolo dello spettacolo, è andato in scena in prima assoluta il 10 agosto scorso, nell’ambito del XXXVIII Festival internazionale “Noto musica”, prestigiosa rassegna che è il fiore all’occhiello della perla del barocco siciliano.
Voci recitanti, Alessandra Mortelliti e Nino Frassica. A cucire musicalmente la narrazione, l’Ensemble Patò diretta da Paola Ghigo.
Dopo il successo di pubblico e di critica a Noto, repliche dello spettacolo sono attese in settembre.
Un aspetto inedito del lavoro di Mortelliti è l’accostamento di due storie di metamorfosi animale: il Pimpigallo in un certo senso si umanizza, familiarizzando con l’amico scrittore e imitandone la voce, mentre Resina di “Maruzza Musumeci” partecipa della natura marina, metà donna e metà pesce, Sirena tra due mondi.
La collisione tra mare e terra della Sirena, il volo del Pimpigallo che cerca la compagnia dell’uomo sembrano rimandare a un qualche confluire di verità diverse che creano una realtà nuova, quasi magica: quella del racconto, l’affabulazione che immagina un mondo altro e lo dispiega davanti ai nostri occhi, oltrepassando in modo misterioso i confini della vita e della morte, del reale e della fantasia.
Lo Gnazio Manisco di Nino Frassica, tenero e ironico insieme, il pappagallino “nico giallo” e la Resìna-Sirena di Alessandra Mortelliti hanno dialogato tra loro e con le musiche di Paola Ghigo creando un mix di voce parola e suono e tentando di ri-creare la musicalità della scrittura di Andrea Camilleri, qui sospesa tra fiaba, mito e sicilianità concreta e mitica, fisica e metafisico-surreale insieme.
Qualche domanda a Rocco Mortelliti sul rapporto tra letteratura, teatro, cinema e opera lirica, ambiti nei quali l’attore e regista di Ceprano ha apportato il proprio contributo con i suoi lavori.
Soddisfatto della resa di “Camilleri in musica”?
Sì, molto. Anche se in fondo non era uno spettacolo complesso, sembra minimizzare Mortelliti, dato che se non è semplicissimo armonizzare due voci recitanti e un’ensemble, Non ho fatto altro che adattare il mio racconto e soprattutto ridurre per la scena il romanzo di Andrea.
Sei autore di testi originali, di sceneggiature e riduzioni teatrali oltre che regista. Come procedi nell’adattare un testo letterario per la scena?
Se mi viene l’idea lo faccio, è una cosa che devi sentire, che deve venire da dentro. Sono molto attento all’aspetto letterario dei lavori che mi propongono. Ad esempio, pensiamo a “Cavalleria rusticana”. Il libretto, per la verità, non rende giustizia alla novella di Verga. La rileggo, ne rileggo anche la versione teatrale. Capisco una serie di cose che mi permettono di indirizzare meglio i cantanti.
Quindi per te è importante il lavoro sul testo e sul suo autore.
Nessun dubbio su questo. Lo studio per avere più informazioni possibili. Penso a Pirandello, Shakespeare… o a Goldoni: ho analizzato scritti, ho visionato stampe per comprenderne il rapporto con la commedia dell’arte. Come regista hai la responsabilità di capire chi hai davanti.
Hai lavorato anche sulla maschera, tieni seminari come docente e hai recitato e reciti tu stesso. Come ti poni da regista verso gli attori e i cantanti?
È fondamentale provare su se stessi, sperimentare per poi comunicare quello che vuoi agli attori. Essendo un attore io stesso, spesso noto nel mondo dell’opera un’attenzione eccessiva sull’estetica a scapito della teatralità e soprattutto della psicologia del personaggio: i cantanti fissi in prima a scapito dell’attorialità, della fisicità del personaggio. Io provo con attori e cantanti, sperimento insieme a loro, desidero che trovino il loro gesto.
Torniamo a “Camilleri in musica”. Com’è nato questo spettacolo?
Diciamo che è stato un lavoro d’occasione. Ho scritto la storia del pappagallino e adattato il romanzo di Andrea ma, essendo “Noto musica” una rassegna principalmente musicale, non ho voluto essere invasivo e ho proposto uno spettacolo in cui fosse la musica a raccontare, a narrare i mondi misteriosi della Sirena e del mio Pimpigallo. Una musica impregnata di sicilianità, popolare e colta insieme.
Quindi ti interessa il rapporto tra le diverse arti.
Che sono in realtà figlie della stessa madre. Sono comunicazione.
Com’è nata l’idea di mettere in scena “Maruzza Musumeci”? E più in generale, leggendo Camilleri come lo vedi trasposto in scena?
Guarda, molte volte ho proposto ad Andrea di scrivere per il teatro. E la sua risposta è stata sempre: «Non sono capace ». Io replicavo: «Come, proprio tu?». In effetti secondo me Camilleri è un autore più vicino al cinema che al teatro, pur provenendo dal mondo del teatro, paradossalmente. È più un narratore, un uomo di cinema che un autore teatrale. Molti dei suoi racconti o romanzi sono soggetti o sceneggiature. Parlo di linguaggio: se analizziamo ad esempio il romanzo “La presa di Macallè”, è un viaggio meraviglioso in soggettiva, narrato dal punto di vista di un bambino. Ha un impianto cinematografico fortissimo.
Com’è stato lavorare con Alessandra, tua figlia? Hai ricreato la triade nonno-papà-figlia de “La scomparsa di Patò”.
Con lei non c’è alcun tipo di imbarazzo, sono molto sicuro quando lavoro con lei, perché è un’attrice professionista che capta immediatamente quello che voglio da lei e mi piacerebbe continuare la nostra collaborazione.
Nonostante abbia una grande sicurezza scenica – Alessandra è un trattore, veramente, scherza Mortelliti – è stato molto forte per me all’inizio dello spettacolo vederla affrontare la platea da sola, caricarsi la responsabilità di far arrivare al pubblico la storia del Pimpigallo. Quella sorta di “animalità” dell’attore si scontra con questa nudità assoluta sul palco.
Rocco Mortelliti ha anche sceneggiato e diretto il film “La scomparsa di Patò”, tratto dall’omonimo romanzo di Camilleri, che a sua volta come in un vertiginoso gioco di specchi letterari nasce da una riga di Pirandello.
“La scomparsa di Patò” a dicembre uscirà in Spagna – sottotitolato in catalano, a marcare l’orgoglio linguistico della regione iberica – e successivamente verrà doppiato per la Tv. È l’ennesima tappa di un film che ha fatto il giro del mondo: basti pensare che è giunto anche in Australia.
Com’è stato lavorare all’adattamento cinematografico de “La scomparsa di Patò”?
Ho lavorato in grande libertà, perché il romanzo di Andrea è costituito da articoli, rapporti, lettere scritte dai personaggi, specie dal delegato Bellavia e dal carabiniere Giummaro. Ho sceneggiato la storia partendo dalla scrittura, che mi ha guidato nella caratterizzazione dei personaggi. Leggendo li ho immaginati nelle loro fisicità e peculiarità. Quando si sceneggia un’opera letteraria bisogna coglierne lo spirito, ma certo occorre fare delle scelte e operare anche dei sacrifici. Ad esempio ho optato per la napoletanità di uno dei due protagonisti (Bellavia) per far meglio risaltare il reciproco punzecchiamento tra l’Arma e la Polizia, la presunta superiorità di una delle “due Sicilie” sull’altra. Ho voluto che i due investigatori ripercorressero materialmente le tracce di Patò – deliziosi i tableaux vivants incorniciati nella narrazione – e ho chiuso il cerchio immaginando e visualizzando la conclusione della storia, che nel romanzo era solo supposta.
Posso chiederti a cosa stai lavorando?
Vorrei realizzare una trilogia basata sui romanzi di Andrea. Ho iniziato con “La scomparsa di Patò” e adesso sto lavorando a “Il casellante”.
Raggiungiamo Alessandra Mortelliti. Da bravi fan di Camilleri, meglio confrontare varie versioni dei testi…
“Letteratu” è un sito letterario, quindi siamo interessati al rapporto tra te come attrice e il testo che interpreti.
Io ho avuto la fortuna di formarmi presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” e la sua impostazione per me è ormai qualcosa di acquisito, che diviene quasi istintivo: leggere e comprendere il testo, riportarlo con le variazioni della voce e del gesto.
In “Camilleri in musica” l’Ensemble Patò ha fornito a me e a Nino Frassica un supporto importante, perché anche Paola Ghigo ha un’impostazione di lavoro simile alla mia: restituire la narrazione, la parola, l’ironia, la situazione, il contesto, grazie alla musica.
Dal 2010 sei anche un’autrice teatrale. Puoi parlarci di cosa significhi lavorare come autrice di un testo oltre che come interprete?
Questa è un’attività venuta fuori recentemente. “Famosa” è nato di getto, dall’attrazione che sento verso tutto ciò che è diverso, ai margini, fuori dal comune, sgradevole. Narra di un bimbo di paese che in realtà è una donna mancata, un reietto, un mostro per la mentalità ristretta del paede della Ciociaria in cui è nato. Questo testo affronta il tema dell’omosessualità e della televisione con i suoi falsi miti come valvola di sfogo, come tunnel di uscita dall’emarginazione. Il bambino sogna infatti di diventare “famosa” tramite un talent-show.
Il monologo è nato come racconto in prima persona, che ho inviato anonimamente ad un concorso letterario. Poi ho provato a trasformarlo in un monologo e a recitarlo io stessa. Me lo hanno chiesto e continuano a chiedermelo in tutta Italia.
Il mio nuovo lavoro teatrale è invece “La strategia del drago”, che ha partecipato al Festival dei due mondi di Spoleto nell’estate del 2012. In scena ci siamo io e Michele Riondino, il protagonista de “Il giovane Montalbano”. Anche qui affronto due personaggi “scomodi” analizzando il rapporto tra una ragazza rom e un naziskin.
Sto lavorando ad una terza cosa… vedremo come andrà.
Credo che comunque non ci sia molta differenza tra l’essere interprete e autrice: si tratta in entrambi i casi di dar voce, di prestare la propria “persona”, anche teatralmente parlando, ad esistenze e storie che forse resterebbero mute.
E adesso le domande che ti aspetti: com’è stato lavorare con tuo padre Rocco su un testo di nonno Andrea? Con “Camilleri in musica” avete riproposto la triade del film “La scomparsa di Patò”.
Un piacere ma anche una responsabilità: una lama a doppio taglio. Non è sempre semplice. Dar voce a “La storia del Pimpigallo” per me è stato istintivo: ero in un’atmosfera nella quale sono nata e cresciuta. E poi apprezzo Rocco come regista, perché sa quello che vuole.
Mi ritengo fortunata perché ho lavorato con grandi attori.
Per quanto riguarda il nonno, ho lavorato tranquillamente perché ha fiducia in me e condivide la maniera di Rocco di vedere i personaggi.
La mia “difficoltà” è soltanto quella di trovare l’equilibrio giusto per mescolare questo all’inevitabile responsabilità di voler dare il massimo.