Continua il tour promozionale di “Effatà”, l’ultimo libro di Simona Lo Iacono, uscito come il precedente “Stasera Anna dorme presto” per i tipi di Cavallo di Ferro.
Abbiamo incontrato la Lo Iacono presso la Feltrinelli di Catania, dove la presentazione del romanzo, a cura dello scrittore e blogger Massimo Maugeri, patron di Letteratitudine, è stata arricchita dalle suggestioni del coro di Maria Carmela De Cicco e dalla presenza di un’interprete LIS.
La nostra Marina Vitale ha recensito Effatà qui: https://www.letteratu.it/2013/06/effata-di-simona-lo-iacono/, mentre il mio compito è quello di offrire ai nostri lettori ulteriori spunti di riflessione sulla scrittura della nostra ospite.
Simona Lo Iacono, magistrato e dirigente della Sezione distaccata di Avola, ha esordito con un racconto, “I semi delle fave”, edito da Emanuele Romeo in occasione del Premio Teresa Carpinteri. Ha poi vinto nel 2009 il Premio Vittorini Opera Prima con “Tu non dici parole” (Perrone LAB), cui sono seguiti “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (Sampognaro & Pupi), vincitore del Premio Portopalo – Più a Sud di Tunisi, e “Il cancello” (Melino Nerella Edizioni). “Stasera Anna dorme presto” ha invece vinto il Premio Ninfa Galatea.
Intanto iniziamo questo incontro con una frase di Max Frisch: «E da uno scrittore – cosa ci si aspetta da uno scrittore? Che rilasci interviste» (Max Frisch, Frammenti di un terzo diario).
Cosa puoi dirci di questo libro? Come si pone nel tuo percorso letterario?
– Questo libro nasce da una profonda esigenza di maternità. Dal fatto che la madre ha un ruolo protettivo e di salvaguardia della prole. Non a caso narra la storia di due bambini con difficoltà, ma che – nonostante l’handicap – sono portatori di messaggi per il mondo adulto. Mi piaceva l’idea di cura e attenzione verso i piccoli, gli ultimi, gli umili. Ma mi piaceva anche che – per una volta – fossero i bambini a farsi portatori di un ruolo educativo. E che in qualche misura fosse loro affidato il compito di insegnare qualcosa agli adulti. Il libro si pone all’interno del mio percorso letterario in questo modo, dunque, riflettendo ciò che – frattanto – io vivo nella mia crescita spirituale. Più apprendo cose del mondo, e più mi rendo conto che la vera salvezza è affidata a sguardi umili, a esperienze innocenti, a vite non ancora amareggiate dal male e dalla fatica di esistere. Da esse si può imparare moltissimo.
La tua “poetica” si basa, a ben vedere, su un culto quasi ieratico della parola e sulla commistione di letteratura e diritto. Sei d’accordo? Puoi approfondire le tematiche di fondo della tua scrittura, le motivazioni profonde dei tuoi testi?
– La mia scrittura nasce dalla vita. Dalla vita processuale, anche. Sono costantemente interpellata dalle ombre, dai fantasmi, dai bisogni di altre vite. Un magistrato è un immenso spettatore, e non fa che assistere a tutte le possibilità dell’esperienza umana. L’errore. La caduta. La redenzione. Il bene. Il male. E spesso quelle esperienze parlano, vogliono essere narrate, rivissute non più in un processo, ma in una storia più grande che non consideri solo le esigenze dell’istruttoria ma quelle del cuore, del dolore, dell’amore. La motivazione più profonda della mia scrittura sta quindi nell’incapacità della mia anima di contenere tutte queste vite. Pressano per uscire fuori, e io devo accontentarle.
«Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente».
Queste sono parole di Vincenzo Consolo, tratte da “La mia isola è Las Vegas” (Mondadori, Milano 2012). Ti riconosci in questa frase? Cosa c’è in te e nella tua scrittura di siciliano?
– Mi riconosco pienamente in questa frase! Non sono solo le persone a scegliere i luoghi, ma anche i luoghi a scegliere le persone! La mia scrittura è sempre figlia della mia terra. È sempre profondamente innestata non solo nella Sicilia della realtà, ma anche in quella letteraria, cosicché alla fine è impossibile dire quali delle due dimensioni abbia la prevalenza. Anche perché la Sicilia è metafora, come diceva Sciascia, di ogni condizione umana, dell’idea del potere e della libertà, della passione e del tradimento, della servitù e della prevaricazione. È un mondo che si presta a livello universale a essere narrato, e che sembra contenere tutti i luoghi, tutti i vizi, tutte le virtù, tutte le cadute e le redenzioni dell’umanità.
Quali sono gli autori che hanno maggiormente influito nelle tue scelte letterarie? E dato che la tua lingua è una mescidanza di italiano letterario, di siciliano, di neologismi inventati, di parole belle “rubate” – ricordiamo la tua Francisca Spitalieri del romanzo d’esordio, che credeva nel potere delle parole – , puoi parlarci delle tue scelte linguistiche?
– Gli autori siciliani che amo sono moltissimi… e ogni volta che ho terminato un loro libro, ho esclamato: avrei voluto scriverlo io, avrei proprio voluto scriverlo così! Brancati, Consolo, Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Patti, Addamo, Bonaviri… e chissà quanti ne dimentico! Ho amato moltissimo anche la lezione linguistica e letteraria di D’Arrigo, di Verga, di De Roberto. Forse perché per me non esiste letteratura senza lingua, senza una riflessione anche sulle parole, sul loro potere sacrale, maliardo, seduttivo. Grandi incantatrici, le parole… sono loro a fare di una storia qualsiasi un’epopea meravigliosa, a rinviare la morte, a interpretare i sogni. Nessuna storia è banale, se ben raccontata, anche l’esperienza più quotidiana e semplice diventa un viaggio se fatta oggetto di cura linguistica, se incanalata verso un senso, se costruita come un’esperienza unica ed eroica. Da bambina bastava pochissimo ad accendere il mio interesse… tutto era magico, anche oggetti privi di valore per gli atri. Bastava che mia madre intonasse con voce misteriosa “C’era una volta…”. Le mie scelte linguistiche, quindi, sono sempre volte a riprodurre quella prima malìa, quel rapimento, quell’amore smisurato per la fantasia.
Sei anche un’infaticabile organizzatrice di cultura. Basti pensare alle presentazioni letterarie commiste di letteratura e… teatro, pupi siciliani, cori gospel, ombre cinesi e via immaginando. Come ti è venuto in mente di declinare la scrittura con altre arti ed espressioni dell’ingegno apparentemente da essa lontane?
– I miei percorsi di “arte e letteratura” nascono dalla stessa esigenza di cui parlavo prima. Creare uno scenario meraviglioso che per qualche momento ci faccia evadere e ci restituisca a noi stessi colmi di commozione, di riflessioni, di immaginazione. Alle presentazioni dei libri, quindi, abbino sempre un altro percorso artistico. Sia perché la letteratura è davvero sorella di tutte le arti. Sia perché l’arte enfatizza le parole, e le parole accompagnano l’arte. Per esempio questo avviene con le ombre cinesi… ma può accadere con i travestimenti, con le arti magiche, con il flamenco, con i cantastorie… ogni volta che ho accostato queste arti ai libri, mi sono sentita come espandere, come se respirassi a polmoni pieni, come se il senso tutto dell’universo si concentrasse nella bellezza, nella poesia, nella possibilità di esprimersi attraverso altri linguaggi.
A cosa stai lavorando? Come immagini l’evolversi del tuo cammino letterario?
– Adesso sto lavorando a un’altra storia appassionante che ho scoperto per caso tra carte di archivio. È la storia di una donna siracusana vissuta nel 1848 che ebbe un ruolo umilissimo e tuttavia determinante nella storia dei moti palermitani. Era ammalata di epilessia, ma nonostante questo fu coraggiosa, sensibile, altruista. Nessun libro di testo la ricorda, perché la sua è una di quelle piccolissime vite che solo la letteratura può riabilitare. Ai suoi tempi l’epilessia veniva assimilata alla pazzia, e per questo fu “giudicata” da un tribunale della pazzia, e scambiata per folle. In realtà era solo ammalata. Ne sto costruendo la vita con amore e con dolore, e con lei sto scoprendo tanti personaggi altrettanto dolenti, violenti, carismatici. Un vero viaggio nel tempo… quanto al mio futuro letterario chissà… io non so immaginarmi nulla. Mi auguro di avere sempre la possibilità di scrivere, di raccontare, di fare questo percorso senza dimenticare che esso è – prima di tutto – un’esperienza spirituale. Mi piacerebbe poter narrare storie tutta la vita.