Poeta degli aforismi: se dovessi scegliere un titolo (un altro) da dare alla vita, o meglio, all’opera letteraria di Kahlil Gibran, sceglierei questo. Poeta di aforismi. Tutti lo conoscono così; la sua fama non ha avuto, e tuttora non ha confini. Di razza, di religione, di genere, di appartenenza. Kahlil Gibran è famoso in tutto il mondo, così come lo sono le sue celebri “frasi”, utilizzate ormai alla stregua di proverbi, entrate a far parte della quotidianità, del bagaglio culturale di ognuno di noi.
Un altro appellativo che ben si addirebbe a Kahlil Gibran è quello di tessitore di ponti; tessitore, non costruttore, perché i suoi non erano ponti fatti di ferro e acciaio, ma ponti di parole (semplici ma mai banali) attraverso cui veicolare ideali universali, anche se non scevri da connotazione religiosa. Come l’unione tra Islam e Cristianesimo, che si esprime metaforicamente proprio nella figura di un ponte, teso a collegare Oriente ed Occidente: questo era il grande sogno di Kahlil Gibran.
Molti critici (di quelli impegnati) non apprezzano le sue opere; gli rimproverano un qual certo populismo, una tendenza – calcolata – a voler parlare alle masse per ottenerne consensi; addirittura alcuni lo considerano un primo, precoce esempio di self-promotion-man, raccontandolo come un santone intento ad alimentare il mito (fasullo?) del suo stesso misticismo. In ogni caso, considerano la sua prosa, a metà tra il lirico e il didattico, sopravvalutata. La sua fama eccessiva rispetto al talento.
Nato (6 dicembre 1883) nel Libano allora vassallo dell’Impero Ottomano, a Bsharri, cittadina a nord del Paese a prevalenza maronita, Kahlil Gibran inizia la sua carriera come pittore. Dopo la fuga dal Libano verso gli Stati Uniti, dove la famiglia approda nel 1895, stabilendosi a Boston, Gibran si iscrive all’istituto d’arte, e si fa immediatamente notare per il suo talento: i suoi disegni iniziano a essere pubblicati, offrendogli una circoscritta popolarità nell’ambiente culturale della città; popolarità interrotta solo da un breve ritorno in Libano, dove la madre insiste a inviarlo a proseguire gli studi.
Il rientro in patria avviene nel tragico segno della morte di una delle sorelle, Sultana, appena quattordicenne, per tubercolosi; malattia che l’anno dopo gli porta via anche il fratello, Boutros, e che infine, stroncherà lo stesso Kahlil (nel 1931); la morte della madre per tumore sfascia definitivamente la famiglia. Kahlil però non rinuncia a inseguire il sogno intellettuale: per i primi anni sarà la sorella a mantenere entrambi, lavorando presso una sartoria.
Intanto, Gibran entra in contatto con alcuni intellettuali dell’epoca che gli aprono le porte dei circoli più esclusivi: prima la scrittrice Josephine Peabody, che sarà sua amante, poi Mary Elizabeth Haskell, americana figlia di un colonnello reduce del Confederate Army, all’epoca direttrice di un istituto per ragazze, donna destinata a diventare la sua musa.
Dieci anni più grande di lui, Haskell invita Gibran, dopo aver visto le sue opere, a esporre nella sua scuola. Ne nascerà una intima amicizia, un amore impossibile vista la differenza di età (Mary ha dieci anni più di Kahlil), coltivato da una fitta corrispondenza epistolare ma destinato a restare platonico, a germogliare durante ingenue passeggiate attraverso il Cambridge Street Bridge, e a dare i suoi frutti attraverso la sublimazione, nell’opera letteraria di Gibran: Mary gli fornirà non soltanto l’ispirazione per alcune delle sue più belle parole, ma l’aiuterà anche ad affinare il suo inglese, scritto e parlato.
Il ponte tra Mary e Kahlil non sarà mai definitivamente cucito; nessuno dei due si sposerà, entrambi resteranno a guardarsi (a scriversi) da una estremità all’altra, tessendo in segreto il sogno di un amore mai concretizzato.
Nel 1908 Mary gli regalerà un viaggio a Parigi: qui Gibran resterà per due anni, studiando all’Accademia di Belle Arti sotto l’insegnamento (così si dice, ma i critici di cui sopra smentiscono) di Rodin; lo studio di filosofi come Nietzsche darà l’impulso finale alla genesi del Profeta, i cui primi vagiti erano apparsi già durante gli anni di istruzione maronita.
Ne nasce un volume che sfugge a ogni classificazione, denso di metafore e immagini simboliche attraverso cui il poeta sviscera, attingendo direttamente all’animo del lettore, come con uno specchio, il segreto legame che congiunge l’uomo a Dio, trasversalmente alle religioni. Uscito nel 1923, nel 1959 Il profeta bissò il milione di copie, diventando un best-seller internazionale.
Forse quello che non va giù ai critici (che nel loro mestiere, quello di “criticare”, sono bravissimi) è il fatto che Kahlil Gibran sia riuscito a conquistarsi una fama mondiale, parlando al cuore della gente (di un Libano, da cui proveniva, vessato da costrizioni politiche e religiose, e di un’America, all’epoca ancora priva di valori culturali fondanti) con semplicità.