A metà degli anni novanta, avevo dieci anni o poco più, guardavo l’orizzonte, deludente linea piatta che finiva dove iniziava il cielo, e puntando il dito verso un punto indefinito dicevo che sarei andata a vivere lontano e se qualcuno pronunciava il nome di qualche paese della bassa padana oppure quello di Mantova, la città più vicina, rispondevo che sarei andata ancora più lontano. Così la gente pensava che fossi proprio una bambina piena di sogni. Crescendo me ne sono andata, sempre più lontano. A volte ho come la sensazione di non essere ancora giunta in quel punto che indicavo all’età di dieci anni.
Tra un viaggio e l’altro, un trasloco e l’altro (che mi venga concessa la soddisfazione di affermare, col petto gonfio, che di traslochi me ne intendo), ho disseminato ricordi e lasciato tracce, ho seguito odori e percepito sensazioni che, altrimenti, non avrei mai provato. E in un momento della mia vita in cui mi ritrovo a fare i conti con un tempo che abbandonato solo a metà, leggere (anzi rileggere, se devo essere sincera) il prologo del romanzo (sì voglio chiamarlo proprio così) di Alessandro Baricco, “Una certa idea di mondo”, nel quale annota quello che ha lasciato e poi ritrovato in seguito a un trasferimento, non può che farmi sentire più felice. Perchè in fondo è vero che tenere i libri nell’ordine secondo il quale sono stati aperti spinge a un rapporto intimo, talvolta morboso e carnale, con i libri stessi, che riposano nell’esatta posizione in cui li abbiamo lasciati, invitandoci ad annusarli di tanto in tanto.
Mi piace il punto in cui Baricco dichiara che lasciar parlare i vecchi “di quello che veramente conoscono e amano” ha il vantaggio di farci ragionare su ciò che pensano del mondo. E’ da questa premessa che ha origine Una certa idea di mondo, quella visione solo a tratti frammentata, diapositive che si stagliano su uno spazio congestionato dalle emozioni e dai tradimenti di un uomo (e non di uno scrittore) che compra il libro per puro piacere, per curiosità, per seguire un consiglio o perchè il titolo invita alla felicità.
Cinquanta libri. I migliori letti negli ultimi dieci anni. Sfogliare le riflessioni attorno a ognuno di questi libri, segnare annotazioni, riscrivere frasi, appuntare e sottolineare, è un modo per entrare, in punta di piedi e con assoluto rispetto, nel tempio letterario di un uomo che ha scelto di parlare di libri “in un momento in cui non sembra più così importante dirsi quali sono belli e quali no, litigarne un po'”. E scoprire che Alice Munro, la regina indiscussa di una costruzione narrativa sorretta dalla forma racconto, viene lodata, al pari di Elizabeth Strout, come ineguagliabile equilibrista linguistica.
Memorabili le pagine in cui viene rievocato l’umorismo di William Goldman con “La principessa Sposa” oppure, subito dopo, l’artigianato di Coetzee con Vergogna che apre la strada a un’infinità di domande le cui risposte si possono ravvisare nella scrittura olimpica e incantevole di Christa Wolf. Come non citare la geometria di una scrittura, solo apparentemente distratta dalla casualità dei ricordi, che enuncia, in poche righe, la potenza di Inka Parei o il realismo magico di Malaparte o ancora il caos primordiale di Truman Capote.
Non ha fatto molto Baricco in questo libro, eppure ha fatto moltissimo. Ha dato un nome alle cose.