Non basterebbe un libro, anche discretamente voluminoso, per analizzare nel dettaglio, descrivere, interpretare e commentare il canto XXXIII della Commedia dantesca: vette eccelse ed inarrivabili di poesia, spunti teologici di straordinario spessore, argomentazioni filosofiche argute e il commovente tentativo di narrare, attraverso parole umane, l’inenarrabile, ossia fissare gli occhi dritti in Dio. A noi interessa dare un quadro generale, quell’input della volontà e del pensiero del Poeta che ci ha condotto fin qui, al termine del viaggio più bello che l’uomo abbia mai potuto raccontare.
Il canto finale della Commedia è nettamente diviso in due parti. La prima è occupata dalla celebre orazione che S. Bernardo rivolge alla Vergine Maria, affinchè interceda presso Dio per permettere al pellegrino Dante di contemplare il mistero di Dio. Converge nella preghiera del santo tutta la tradizione mariologica, dotta e popolare. L’esordio entra di diritto nella storia del genere poetico, con quelle antitesi che più di ogni altro appellativo denotano la figura della Madonna:
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio…
Maria è vergine eppure madre, figlia di Dio e del suo stesso figlio, creatura al massimo grado umile ed eccelsa, punto di riferimento fisso dell’eterno: con questo sublime gioco di parole inizia la lode che S. Bernardo rivolge a Maria, esempio luminoso di carità per i beati e inesauribile fonte di speranza per gli uomini. Il Santo afferma di desiderare per Dante più di quanto abbia desiderato per sè, e cioè che il Poeta veda Dio. La reazione di Maria è semplice quanto decisa: non un cenno, non una parola (e tanto meno un sorriso, come qualche disattento critico ha sottolineato): è sufficiente lo sguardo fisso in S. Bernardo a indicare il consenso della Vergine, che si rivolge quindi a Dio per intercedere a favore del poeta.
Comincia a questo punto la parte più intensa del canto. Dante, animato da un desiderio che non conosce confini, senza attendere esortazioni cerca di penetrare con il suo sguardo nella luce divina. Fino all’ultimo verso il filo conduttore della poesia è l’ineffabilità, cioè l’impossibilità di esprimere a parole ciò che si è visto. Dante sente ancora dentro di sè la dolcezza provata e invoca Dio affinchè gli dia la possibilità di far comprendere ai posteri anche solo una piccolissima parte di ciò che ha veduto. È nella condizione di chi, dopo aver sognato, ricorda la sensazione, ma non i contorni reali e definiti del sogno (quanto poetico realismo in questa similitudine!); poi – per chiarire il concetto – adopera altre due immagini, di cui la seconda di ascendenza classica:
Così la neve al sol si disgilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla
Tanto, tantissimo è stato scritto su questa estrema visione di Dio, visione di un concetto, di un qualcosa di infinito, indeterminabile e indescrivibile. E decisamente inadeguato è il mezzo di un uomo per esprimere un concetto così “spirituale”: la parola è come quella d’un fante/che bagni ancor la lingua a la mammella.
Eppure Dante ci prova, prova con uno sforzo sovrumano a descrivere i misteri della Trinità e della Reincarnazione. Vede tre cerchi, di tre colori ma assolutamente uguali: dal primo si riflette il secondo, e il terzo da entrambi. Sono unità e trinità insieme. E il secondo appare come lume reflesso, al cui interno vi è un’effige umana dello stesso colore. Ma no, non è proprio all’interno: piuttosto l’immagine “si adatta” al cerchio, ma Dante non capisce come… Non abbiamo la controprova, ma non immaginiamo che, fino alla fine dei tempi, un uomo osi descrivere così l’indescrivibile: Dio, l’Essenza, la Trinità e il mistero supremo di fede del Cristianesimo che vuole che Dio si faccia uomo.
Poi, improvvisamente, l’illuminazione della Grazia. È solo così che Dante può comprendere. Un fulmine a ciel sereno, una frazione di frazione di attimo in cui si rivela il senso di tutto. Dante placa la sua inquietudine nel sentirsi parte dell’ordine universale, e nella coscienza della partecipazione al Bene s’acqueta:
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e’ l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
È la consolante conclusione del suo poema. Forse della vita.