In questo strano stato di eccitazione della mente voglio tentare ora di fermare le brevi, momentanee intuizioni estatiche. Come istantanee della realtà: fotografo la realtà circostante… Per un attimo è mia.
La sto vedendo con questi occhi lucidi e impauriti, ma anche traboccanti di passione, amore, speranza e di sogni. Le credo.
Vorrei fermare il tempo, impedire alle lancette dell’orologio di muoversi, ai fatti stessi di proseguire per il loro tragitto. Voglio immortalare ciò che ho nella mia mente, che fa parte di me. Che farà sempre parte di me, anche quando mi renderò conto che è tutta una storia adolescenziale, infantile e ormai passata. Anche quando me la dimenticherò. Da qualche parte, dentro di me, ci sarà sempre il ricordo di ciò che è stato, di ciò che ho provato e di ciò che sento tuttora.
Da dove partire, se non dall’inizio?
Buio. Davanti ai miei occhi volteggia una data. L’inizio del mese, l’inizio di tutto. O di nulla?
1 agosto 2009
Avevo programmato tutto: mi sarei fatto trovare proprio là, dove saresti andando anche te. Come al solito, tra l’altro. Avrei trasformato il tutto in una coincidenza, in un incidente, in un incontro casuale. E, per certi versi, lo fu. Usai la scusa dei provini del Grande Fratello per recarmi in quel posto. Nonostante la forte speranza di vederti e la certezza che saresti andato là, dentro di me sentivo la paura di non vederti, di poterti solo immaginare. Di poter pensare, un domani, che eravamo nello stesso posto senza saperlo, senza vederci.
Quella sera mi trovavo in una discoteca a me sconosciuta: non c’ero mai stato. Ero lontano chilometri e chilometri da casa mia, solo e senza sapere il luogo nel quale mi trovavo. L’unica certezza che avevo era che ero là per te, per vederti e che tu, là dentro, c’eri. Solo, hai capito bene. Con me non c’era nessuno. Stavo fermo, ad ascoltare la musica, guardandomi attorno, osservando la gente ballare, cantare e bere cocktails. A volte seguivo il ritmo della musica con le gambe o battendo le punte dei piedi per terra.
Dovevo trovarti, eri là dentro. Sembra strano, ma nell’aria avvertivo la tua presenza, sentivo il tuo profumo anche se non avevo nemmeno la minima idea di come e quale fosse. Ti sentivo, ti percepivo, ti respiravo. Eri nell’aria, tra quelle pareti, in mezzo a tutta quella gente, dentro i bicchieri di plastica, vicino alla consolle, all’entrata, all’uscita, nel giardino… Ne ero sicuro, sicurissimo.
Mi misi a pensare al pomeriggio di quello stesso giorno. Ricordo ancora ora la discussione che ci fu tra me e mia zia. Un po’ per caso, un po’ per curiosità, citai il tuo cognome, dicendo che eri mio amico, che ci saremmo visti, che ci conoscevamo da un pezzo. Insomma…ci sentivamo. Lei mi corresse subito: avevo sbagliato il tuo cognome. “E’ con la ‘a’, non con la ‘e'”, disse. “Lo conosci?”, “Beh, è una famiglia importante, la sua. Questa zona che stiamo attraversando in macchina, proprio questa, è piena di gente che ha il suo stesso cognome. Molto probabilmente vive qua…”
Osservai la rotonda, la strada leggermente in discesa, il cielo, le altre macchine sfrecciare. E mi sentii vicino a te. Stavo percorrendo la stessa strada che chissà quante volte avrai percorso: a piedi, in bicicletta, in moto, in macchina, in autobus. Da solo, con amici, con i tuoi, con qualcuno… Sorrisi dentro. Il mio volto rimase impassibile ma sentii all’interno di me qualcosa muoversi, come se il cuore, i polmoni, il fegato, tutto si fosse trasformato in un dolce sorriso.
Girai tutto il locale: la pista da ballo, i divanetti, il giardino, l’entrata. Niente, di te solo la presenza, nemmeno un indizio. E poi…Eccoti. Eri tu? Erano tuoi quei capelli? Ma sì, l’inconfondibile ciuffo biondo. Stavolta li avevi giù, i capelli. Ma lo sguardo, quello sguardo…Era il tuo, doveva essere il tuo. Giuro, non riuscii a muovermi. Ero impietrito, incominciai a tremare e a sentire freddo. Ero a maniche corte, ovviamente. Avrei voluto scomparire ma anche raggiungerti. Muovere la mia mano verso la tua direzione, chiamarti, dirti ehi sono io sono qui vieni ti ho cercato da un bel po’ sono da solo sono venuto qui solo per te per vederti senza che nemmeno tu lo sapessi perchè non lo sapevi vero che venivi, non lo sapevi eh?
I nostri occhi si incontrarono per un piccolissimo istante. Ti eri accorto di me, cambiasti per un attimo espressione. Ti stavi domandando chi fossi, da dove venissi. Ti ero familiare, vero?
Scarpe bianche. Pantaloncini. Maglia bianca, credo. Ma il viso, i capelli, lo sguardo…Sì, eri tu.
Tu.
Lui!
Feci per avvicinarmi ma la calca mi immobilizzò e non mi sforzai più di tanto. Avevo paura. Non sapevo che dirti, che approccio usare con te. Ripensai a tutti i chilometri fatti, alle quattro ore di treno…
Mi provocò un effetto strano, vederti. Dissi così anche ai miei amici, quando parlai di te.
Vedere un amico su Facebook che non è della tua città, che ti piace, che non hai mai visto, con il quale non hai mai parlato…
Un turbine di emozioni invase il mio corpo, che tremava, un po’ pulsava. Uno tra tanti, davanti a me. Te davanti a me. Così bello, così interessante, così te…Così sbagliato.
Mi avevi riconosciuto? Io sì, subito. “Lui non sa che esisto. Sono solo un suo amico su Facebook. Che effetto non conoscerlo, saperlo lontano e vederlo non tanto lontano da me…” Era tutto così irreale, così magnifico, così emozionante.
Rimasi lì, fermo, a guardarti, fantasticando un po’. Poi…non ti vidi più.
Mi girai di scatto e ti vidi davanti a me, con i tuoi amici, che mi passavi davanti e mi guardavi. La stessa occhiata di prima, o forse più intensa, un po’ più profonda. Sì, ti stavi chiedendo: chi è? Che vuole? Che ha da guardare? Dove l’ho già visto?
Se ricordi ti lasciai un messaggio in bacheca, qualche giorno prima, per dirti che anche io, come te, sarei andato là. Ma non tu non mi rispondesti…
Non ti seguii, decisi di non farlo. Volevo concedere a me stesso la difficoltà di cercarti di nuovo, là in mezzo, perchè una volta ritrovato sarebbe stato ancora più bello guardarti. Dopo una decina di minuti decisi di uscire. Basta, ti avevo già visto ma non so perchè limitarmi a guardarti mi faceva tanto, troppo male. Mi diressi verso la cassa ma…vidi un tuo amico ordinare un cocktail. Sapevo il suo nome, l’avevo letto su Facebook e in più l’avevo visto in alcuni tuoi video. Dovevi essere da quelle parti. Ti cercai ma non ti trovai più…Eri dentro di me, ormai. Nella mia memoria, nell’aria che respiravo, ti eri appigliato ai miei polmoni, alle mie budella. Non ti avrei più fatto uscire.
Non avevo bevuto, non mi ero sentito male. Solo, non ricordavo niente. Come se avessi dormito per chissà quanti minuti e mi fossi risvegliato a casa tua. Eravamo solo io e te. Lontani dal caos, dalla musica assordate, dalle luci fastidiose della discoteca. Con me c’era la paura, era attaccata ad ogni mio vestito, ad ogni mia parola, ad ogni mio respiro. Eravamo in camera tua, un po’ illuminata, un po’ no. In piedi, abbracciati. Non ci eravamo ancora detti nulla, avevamo tutto il tempo di questo mondo per farlo. Te, più alto di me, mi tenevi la testa contro il tuo petto. Mi accarezzavi un po’ i capelli e io sentivo che di lì a poco avrei pianto. L’emozione, l’imprevedibilità del caso, la paura, la certezza che finalmente ti avevo conosciuto…Tu eri in posizione eretta, io un po’ meno. I piedi allineati ai tuoi, il busto buttato sul tuo. Non ero per niente scomodo, mi andava bene così. Ti guardai in viso e notai ciò che dalle foto non avevo visto: un po’ di barbetta, il viso leggermente gonfio, le sopracciglia non proprio perfette. Ma, cavoli, eri tu. E, credimi, eri più bello. Sapevi di buono, di fresco anche se si sentiva un po’ di sudore…Il colletto era leggermente bagnato e anche le tue braccia – non muscolosissime, ma in grado di farmi sentire protetto – erano lucide, scivolose. Come il tuo collo, come la tua fronte…Non avevo visto bene la tua casa, nemmeno la tua camera, veramente. Avevo gli occhi chiusi e cercavo di contare le carezze che mi facevi e se lo facevi a tempi regolari oppure no. Alternavi lentezza con velocità, forse eri scosso anche te, un po’.
Il tuo tocco delicato passò sul mio viso. Accarezzasti la scia delle mie lacrime, che bruciava, che pesava. Sembrava la scia viscosa di una lumaca. Il tuo pollice, il più delicato e bello che avessi mai sentito e visto. E poi quel sorriso, i tuoi denti bianchissimi.
In che sogno ero? Dove mi trovavo? Ero al sicuro con te?
Mi prendesti per mano e a passi lunghi e distesi mi portasti in salone. Poi cambiasti idea e tornammo di nuovo in camera tua. Sul letto. Non facemmo l’amore, no. Nemmeno sesso. Rimanemmo semplicemente distesi a parlare. Confrontarci. Riflettere. E riflettere era proprio il tuo verbo preferito. Il mio no, era scrivere. Vidi alcune tue foto, mi tuffai nella tua vita privata con discrezione e tanta voglia di scoprirti, di diventare parte di te.
“Ti sento…Ti respiro, sai?”
Io ero girato verso di te, le mani intrecciate sotto la mia testa. Te, più in alto, la testa poggiata sul tuo gomito. Guardavi me, in basso, come fa un angelo, come fa il creatore di una creatura così fragile, debole e spaventata come me. Non incontrai il tuo sguardo, mi rifiutai di farlo. Tremavo, tremavo, tremavo. Volevo piangere. Ma che dico? Lo stavo già facendo, in silenzio, un po’ a occhi chiusi e un po’ guardando il basso. Con la mano, sfiorasti il mio mento e lo alzasti. I tuoi occhi…Se solo ci penso mi sento morire. Anzi, preferirei morire anzichè accorgermi che non li rivedrò sempre. Mi specchiai, vidi tantissime cose, così tante che non ricordo più niente. Inciampai dentro al tuo sguardo, caddi, mi feci male, tanto male. Vedevo sofferenze, silenzi, pianti e poi l’amore. Un lago verde, giallo, azzurro. Un mix di tutti i colori.
[…Mi viene da vomitare…Sto male, mi sento male, ricordare queste cose mi fa male. Ma mi fa anche bene. Perdonami…]
Ritornai in me, distolsi lo sguardo dai tuoi occhi e cadde di nuovo sulla tua barba, le orecchie, i denti e il tuo naso. Eri bellissimo. Lo dissero anche i miei amici, quando poi, dopo qualche giorno, gli avrei fatto vedere la tua foto.
Non sapendo che fare, per eliminare quel forte, grande, enorme e notevole imbarazzo mi misi ad accarezzare il tuo braccio e il tuo collo. Mi rannicchiai contro il tuo petto, posizione fetale. Mi sentii bambino, indifeso. Continuavo ad avere paura ma stavolta non per le poche ma per le troppe certezze che inconsapevolmente mi stavi dando. E’ contorto, lo so…
“Abbracciami, ti prego. Forte…”
E tu mi abbracciasti. Forte. Ero a casa, nel posto che sentivo mio. Se il mondo fosse esploso, qualcuno fosse morto, un terremoto avesse colpito quella stanza, beh, penso che me ne sarebbe fregato pochissimo. Anche la morte avrebbe potuto raggiungermi. Pazienza. Sarei morto là, con lui, in quell’istante.
[…Piango…]
Non ricordo che altro facemmo. Ricordo solo che trovai bellissimo il fatto che ti fossi coricato a letto con le scarpe, senza togliertele. Il copriletto sotto le tue suole, le tue gambe piegate, le mie raccolte, le nostre mani unirsi, poi allontanarsi. E le labbra, Dio, quelle labbra…Incontrarsi. Non ci siamo baciati, ci siamo sfiorati. Non ci siamo ancora baciati. Buffo, ci siamo solo toccati, avvertiti. Sentiti. Vissuti.
Il mio respiro era pesante, il cuore batteva fortissimo.
Mi promettesti che mi avresti presentato tutti i tuoi amici, che non mi avresti mai più abbandonato.
Già…Ma io l’avrei fatto?
Le serrande sono abbassate, filtra pochissima luce nella stanza. Nella mia camera, nella mia stanza. Vedo alcune particelle di polvere volteggiare nell’aria, danzare qua e là. Ognuna per la sua strada, seguendo il suo tragitto senza pensare alle altre.
Un po’ piango, lo ammetto. Continuo a voltarti e a guardarti dormire. Il letto è disfatto, stanotte ti sei scoperto. Dormi in boxer bianchi, senza calze, il viso nascosto in mezzo a quei tuoi bellissimi capelli addormentati e alle braccia unite. Cosa nascondi? Una faccia stupenda, una persona che, ahimè, non fa per me.
Com’è possibile provare tutte queste cose e sapere che non fai per me?
Vuoi sapere cosa c’è, che non va?
Sei troppo. Sei già tutto. Tempo una settimana. Sei troppo bello, mi dai troppe sicurezze, mi fai sentire grande. E questo un po’ mi spaventa. Ho paura di sbagliare, di vederti ancora, di dire cose che sento, che penso ma che non dovrei dire. Anche se il tempo trascorso insieme non vuol dire niente. Penso di aver vissuto. Di aver vissuto veramente, degnamente.
Se solo ti guardo ancora dormire e penso a tutto ciò che ho appena scritto mi sento morire. Pagherei oro per non dover dire o fare quel che sento dentro di me. Le lenzuola che sanno di noi, casa mia che per una notte è stata vissuta, le mura che hanno visto ma che mai parleranno, l’aria che c’è, che sa di noi, ma anche di chiuso e di lattice. Voglio ancora viverti, ma ho paura di smettere facendolo.
Sei tu. Sei tu. Tu.
Come dice la canzone che ci ha fatto incontrare, che ha fatto da colonna sonora a tutti i miei battiti del cuore in gola. Le mani tremanti, le ginocchia incapaci di reggermi, la calma inesistente, la discoteca, quella serata, tutto.
Mi ricordo ancora – quand’è stato, ieri? – le risate che ci siamo fatti dormendo. O meglio, facendo finta. Ormai hai capito che mi piace darti le spalle, le mani sotto la mia testa, gli occhi chiusi e avvertire la tua presenza e il tuo sguardo dietro di me. Mi piace sapere che mentre dormo mi guardi, mi sorridi. La testa sorretta dalla tua mano, il tuo gomito che segue la stessa traiettoria delle mie spalle, il tuo sorriso spensierato e sincero, dolce e bellissimo. Come te. Ho aperto gli occhi piano piano, volevo solo vedere se mi stavi osservando, senza che te ne accorgessi. “Guarda che ti vedo, eh?”
Scoppiai a ridere e la stanza si colorò di quel suono. La luce sembrava ancora più forte, talmente forte da sembrare fastidiosa. E poi giù con gli abbracci, le lotte con i cuscini e qualche pizzicotto. Senza baci, senza sfioramenti. Non ne abbiamo bisogno, noi due. Viviamo così bene, senza. Viviamo solo guardandoci, solo sentendoci, solo avvertendoci, solo sapendo che da qualche parte ci siamo.
Ora non mi giro più, voglio aspettare il momento in cui mi coglierai di sprovvista circondandomi da dietro con le tue braccia. Tanto so già che poi sorridi e fai finta di volermi strozzare. Se solo ciò accadesse mi domanderesti: “Che scrivi?”
“Niente” + tasto Canc.
Cancellerei tutto, renderei la nostra storia solo nostra. Non so, ho voglia di scriverla, di viverla ad ogni parola che scrivo, ad ogni pausa che faccio, ad ogni respiro…Respiro ora, visto che con te non l’ho mai fatto. Mi sono buttato tra le tue braccia subito, senza nemmeno pensare, respirare. In apnea. Così ti voglio, ti desidero. In apnea. In. Apnea.
Non voglio nemmeno respirare, voglio viverti e basta.
Non ho il coraggio di lasciarti, anche se sento che lasciare questa pagina, questi miei ricordi, tutti i miei sogni, le mie speranze, i miei pensieri, le mie gioie è quel che devo fare.
Mi sono appena alzato, ti ho di nuovo guardato dormire e abbozzare un sorriso. Mi sono chinato sul tuo orecchio e ti ho sussurrato una frase. Una volta un mio amico mi domandò: quale frase vorresti dire solo una volta in vita tua?
Beh, te l’ho sussurrata: “La mia vita farebbe schifo senza di te”
L’hai sentita? Non hai annuito, hai continuato a dormire. Chissà, forse facevi finta…
Ora che ci penso, non so se pubblicherò tutto quanto.
Fai solo una cosa: quando ti svegli ricordami di chiederti di abbracciarmi.
E ti prego, fallo.
Forte.