Masterpiece, Chefs-d’oeuvre, Obra maestra, Meisterwerk. La parola capolavoro esiste in ogni lingua del mondo e, nel mondo, ogni giorno, viene detta da milioni di persone, associata ad un libro, ad un’opera d’arte, ad un film, ad una musica, persino ad un gol o ad un discorso politico. Una parola sulla bocca di tutti ma che non tutti sarebbero in grado di definire anche perché ognuno ne darebbe una definizione diversa e soggettiva.
Mi prendo la briga di consultare il vocabolario Treccani. La parola si compone di capo e lavoro ed è definita in tre modi:
1. la migliore di una serie di opere di un artista, di uno scrittore o di un’età
2. opera, e per estensione azione, impresa, comportamento, eccellente in genere
3. opera compiuta dal lavoratore alla fine del periodo in cui deve dimostrare la propria capacità professionale
Ma chi decide quale sia la migliore tra le opere di un artista, di uno scrittore o di un’età? Il fruitore dell’arte? Il lettore? Il critico? O la sua diffusione nel tempo e nello spazio?
Mettiamo da parte questa domanda per ora e consideriamo che se su un motore di ricerca provassimo a cercare materiale contenente la parola capolavoro, ne uscirebbe una quantità infinita ma i risultati sarebbero pressoché scarsi perché conterrebbero la parola senza che ne sia data una definizione o sia inserita all’interno di una più ampia dissertazione. Deludente? Già.
Se n’è accorto anche lo scrittore ed editore francese Charles Dantzig autore del saggio À propos des chefs-d’oeuvre (2013) il quale, immaginando esistesse una bibliografia sconfinata sull’argomento capolavoro, ha scoperto, con una certa sopresa, che sull’argomento nessuno aveva scritto o almeno mai diffusamente e approfonditamente. Esiste, però, una serie infinita di citazioni e il primo ad usare quella parola in letteratura, a suo avviso, è Voltaire ne Il secolo di Luigi XIV (1752) quando dice “Si giudica un grand’uomo dai suoi capolavori, non dagli sbagli”. Ed ecco che qui la definizione allude alle imprese militari e politiche dell’uomo di potere e non ad un’opera materiale, qualcosa di costruito artigianalmente, secondo il significato originario della parola che nasce intorno al 1200, proprio in ambito artigianale.
Una definizione del giornalista e critico cinematografico Paolo Merenghetti, pescata in rete, mi viene in soccorso: “Che cos’è un capolavoro al cinema? Può essere un film che ci insegna a guardare in un modo nuovo, che rinnova i linguaggi, oppure ancora che sfrutta come meglio non si potrebbe le possibilità spettacolari offerte dal mezzo”.
Trasliamo questa definizione dall’ambito cinematografico e adagiamola in un contesto letterario: c’è un libro che ci ha insegnato a guardare in un modo nuovo? C’è un libro che ha rinnovato i linguaggi? C’è un libro che ha sfruttato come meglio non si sarebbe potuto le possibilità spettacolari offerte dal mezzo? Se avete risposto sì a tutte e tre le domande e avete in testa capolavori della letteratura, dalla Divina Commedia di Dante all’Ulisse di Joyce, passando per tutta l’opera di Shakespeare, tanto per non sbagliare, allora siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Del resto lo ha scritto anche Edoardo Sanguineti : “La virtù principale del capolavoro, se vogliamo continuare a chiamarlo così, è quella di creare un nuovo modo di guardare le cose.”
E se traslassimo questa definizione in un contesto artistico? C’è un’opera d’arte che ci ha insegnato a guardare in un modo nuovo? C’è un’opera d’arte che ha rinnovato i linguaggi? C’è un’opera d’arte che ha sfruttato come meglio non si sarebbe potuto le possibilità spettacolari offerte dal mezzo? Il Giudizio Universale di Michelangelo risponde sì a tutte e tre le domande. E che dire di Guernica di Picasso, definito, non a caso “il giudizio universale del XX secolo”? Di esempi se ne potrebbero fare un’infinità perché rispondono positivamente a queste domande un numero spropositato di opere: dalla Gioconda di Leonardo alla Vocazione di San Matteo di Caravaggio, da La zattera di Géricault ad Impressione: Levar del sole di Monet, da Campo di grano con corvi di van Gogh all’Urlo di Munch.
Abbiamo aggiunto un altro elemento alla definizione: la capacità d’innovazione del capolavoro, idea condivisa da Dantzig quando sottolinea che i capolavori si trovano tra coloro che hanno attraversato un periodo di decostruzione e cita per l’arte Marchel Duchamp e per la letteratura James Joyce e ancora scrive: “Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo proprio criterio e che non si può giudicare se non tramite se stesso. Espressione la più audace possibile di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità”. E qui appaiono ulteriori elementi per la definizione: l’unicità e, in un certo senso, l’autoreferenzialità del capolavoro che sembra essere tale in quanto riferito a se stesso e non in comparazione con altri. Precisa Dantzig: “Il capolavoro non è democratico. Non è il numero di lettori che fa il valore di un libro.” Questo è certamente un punto di vista, condivisibile o meno, ma che fa riflettere sulla differenza tra “best-seller” e “capolavoro”.
E così, se una definizione a questo punto sembra possibile, la domanda successiva è proprio: cosa può essere considerato un capolavoro e cosa no?
Dantzig fa una sorta di identikit bocciando e promuovendo una serie di capolavori letterari, sottolineando però che “un capolavoro in molti casi non è perfetto” e adatta questa definizione tanto a Teorema di Pasolini, le cui piccole sbavature “lo rendono umano, accessibile, meraviglioso”, quanto Alla ricerca del tempo perduto di Proust, con la sua imperfezione proprio nel finale. Promossi ed incontestabili il Decameron di Boccaccio e Riccardo III di Shakespeare. Bocciati i “capolavori inesistenti” inventati dai “lettori incolti” come Viaggio al termine della notte di Céline e “capolavori presunti” come il Don Chisciotte di Cervantes.
Allo stesso modo, nell’arte, si potrebbe parlare delle opere di molti artisti, da Tiziano a Goya, dove è proprio quella non raggiunta completezza, fortemente voluta, a farne dei capolavori come la Congiura di Claudio Civile di Rembrandt, respinta per quelle figure rozze e deformate, per quella pittura imperfetta che tanto disturbò i commitenti.
Ma se non siete d’accordo con le scelte fatte da Dantzig, state tranquilli perché, come sottilinea lui stesso, il suo non è che un punto di partenza, per poi arrivare alla conclusione che il capolavoro letterario “è un grande libro verso il quale non esistono più obiezioni”. E qui, evidentemente, il campo si restringe e si aggiunge un altro elemento alla definizione: unanimità di giudizio.
Viene da chiedersi: quando viene alla luce questa inesistenza di obiezioni, questa unanimità di giudizio? Nel corso del tempo? Nello spazio? O di entrambi? Perché se è pur vero che “A leggere la quarta di copertina dei libri in commercio, sembrerebbe che in circolazione ci siano solo capolavori “(Vannuccio Barbaro), appare più accettabile l’idea che il capolavoro è “un figlio che si battezza soltanto dopo la morte del padre (Adrien Decourcelle). “Fu vera Gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”, si potrebbe rispondere lapidariamente citando Manzoni.
È chiaro, a questo punto, che una definizione univoca non può esistere come non può esistere un identikit del capolavoro. Se ne possono dare delle versioni, abbozzare un’immagine, delineare uno schema, fornire degli spunti. Perché, se come disse Richard Wagner “Il capolavoro guasta la tolleranza verso tutti gli altri”, evidentemente, il capolavoro è quella dimensione oltre la quale nulla d’inferiore è più tollerato poiché la più alta aspettativa è stata realizzata. È quel “tentativo riuscito” come disse George Sand , quella espressione di pienezza ed esemplarità raggiunte, che durino nel tempo, senza avere “i minuti contati” come avrebbe detto Ennio Flaiano, almeno per il lettore o il fruitore dell’arte. È ciò che “ci eleva al di sopra della banalità, della mediocrità, della monotonia” dice ancora Dantzig.
E se l’artista francese Yves Klein, “inventore” del famoso blue Klein, con le tele montate sul tettuccio dell’auto portate a spasso sotto la pioggia per creare effetti particolari, che capolavori proprio non si potevano definire, disse, con una buona dose di egocentrismo ed alta considerazione di sè: “Il pittore deve creare costantemente un solo unico capolavoro, se stesso.”, non resta che concludere: “A ciascuno il suo”.
Capolavoro, s’intende.