Quando ho preso in mano, durante l’università, le poesie di Lorca ho provato, da subito, un trasporto che stentavo a riconoscere e ad ammettere a me stessa. Di fronte al verso liberato dal pomposo giudizio della metrica classica e condotto verso le allucinazioni fantasmagoriche del surrealismo e le rocambolesche vicissitudini che videro il poeta protagonista nel viaggio dall’America latina alla grande mela passando per Parigi e Roma, non potevo non riconoscere la freschezza di una scrittura, stagliata sulla pagina tersa, incrinata talvolta da un dolore sotterraneo, accolto e allontanato, abbracciato e detestato dal poeta stesso, un’inquietudine, una sorta di ricerca fanatica di ciò che, di fatto, Lorca non riuscì mai a possedere.
E’ il possesso che mi ha meravigliato, quel possesso difeso fino alla morte, quel bisogno di sentirsi parte di qualcosa e che, invece, ha portato Lorca a riconoscere (erroneamente) un fallimento superiore, il disagio di una diversità che va oltre la comprensione stessa. Tra le pieghe delle sue poesie, il possesso è riscontrabile nel rapporto con New York, nel rapporto (doloroso e continuamente ricordato e rivissuto) con il compagno Emilio Aladrén, nel rapporto, burrascoso e solo a tratti sereno, con la poesia. Se è vero che i ricordi acuiscono il dolore e la solitudine nella quale vive il poeta è anche vero che il suo soggiorno a New York getta luce sulla sofferenza che diventa, nel tempo, la base della sua poetica. Tuttavia con ciò non s’intende dire che vi è una volontà di autocommiserazione e vittimismo che potrebbero uccidere lo stile poetico, al contrario, l’affermazione del dolore rafforza la genialità di un’anima sola in perenne conflitto con la modernità capitalista.
Federico Garcia Lorca, in quegli anni a cavallo tra il 1929 e l’inizio del 1930, vede nei negros di Harlem i gitani dell’America Latina. Sono loro che infondono nel cuore del poeta la speranza di una rivoluzione all’interno di una società che vuole, in senso spietatamente darwinista, il prevalere del più forte. Ad una vicinanza umana verso i negros si impone, in maniera quasi simmetrica, un’allontanamento dalla metropoli che è tanto sentito nelle prime sezioni dell’opera quanto accentuato (per poi diventare definitivo) nell’ultima parte.
All’egocentrismo poetico, tipicamente surrealista, si accosta la sensibilità di un’anima sofferente, in perenne ricerca di certezze, di risposte alternative, se non addirittura contrapposte, al terribile vivere imposto dal mondo moderno, così cieco e indifferente al dolore degli uomini. E’ un cuore grande quello di Lorca, che trattiene le emozioni, che capisce la tragedia che sta vivendo, inconsapevolmente, l’uomo moderno e la traduce nelle sue poesie spogliata da qualsiasi pessimismo e gonfia, quasi esuberante, di speranza. Dolce e malinconica felicità.