Con il primo canto del Paradiso inizia l’ultima tappa del viaggio ultraterreno di Dante. Nuovi colori, nuove luci ed altre realtà attendono il nostro pellegrino.
Con questo canto troviamo già i motivi essenziali dell’intera terza cantica, e il Poeta ci rende più che mai partecipi di questo nuovo modo di concepire tutte le cose che lo circondano: da una parte c’è l’universo, immenso e vario, creatura perfetta di Dio (già definito con una serie di perifrasi); dall’altra l’anima, la singola anima, infinitesima particella che si muove come d’istinto verso Dio stesso, fin da subito identificato come luce.
I primi versi del Paradiso sono dedicati al proemio. Se nell’Inferno era molto breve e nel Purgatorio si snodava in più terzine, adesso occupa uno spazio davvero considerevole, fatto giustificato dall’altezza dell’argomento, di fronte al quale Dante si pone quasi con sgomento. Enunciato quindi l’argomento e dichiarata l’insufficienza della parola per esprimere ciò che ha visto, il Poeta invoca direttamente Apollo, il dio stesso della Poesia: se per le altre due cantiche era stato sufficiente l’aiuto delle Muse, ora è necessario l’altro gioco del Parnaso. In causa viene dunque chiamato Apollo, e oltretutto in virtù della forza e dello spirito con cui vinse il satiro Marsia, il quale osò sfidare il dio in una gara di bravura musicale e finì legato ad un albero e scorticato (si ricordi che anche nel proemio della cantica precedente Dante aveva citato una vittoria esemplare, quella delle Muse sulle Piche).
Comincia a questo punto la narrazione vera e propria. Ricordiamoci che il protagonista è ancora nel Paradiso Terrestre, presso la sorgente comune del Lete e dell’Eunoè. Con cura astronomica viene poi indicato il momento cronologico dell’azione: siamo probabilmente all’equinozio primaverile, quando il sole si trova nella costellazione dell’Ariete, posizione giudicata allora molto favorevole. L’ora è quella di mezzogiorno. L’attenzione, una volta forniti questi dati, si sposta su Beatrice, d’ora in poi co-protagonista dell’opera: la donna si volta verso sinistra e fissa il sole. Come fa l’aquila, chiamata in causa dai versi danteschi non soltanto per il suo potere di fissare il sole, ma insieme per la sua forza di ascensione. Dante fissa il sole a sua volta, quasi obbedendo – nel far ciò – ad una necessità, così come per necessità il raggio riflesso nasce dal raggio diretto (sempre chiare e riuscite le similitudini, che in questa terza cantica hanno il compito di avvicinare ai nostri sensi qualcosa di indescrivibile).
Dante sente di trasumanar, letteralmente oltrepassare i limiti della natura umana:
Trasumanar significar per verba/non si poria
A parole non si può descrivere. Lo sgomento sale, così come la curiosità per la dolce armonia e la grande luminosità, di cui Dante vuole conoscere la ragione. Beatrice, non interrogata, legge il dubbio nella mente dell’amato e gli spiega che stanno salendo veloci verso il cielo; il dubbio è causato dal fatto che il Poeta crede di stare ancora sulla Terra.
Ma Dante si deve ancora abituare a questa nuova dimensione, profondamente diversa – come abbiamo sottolineato – dalle precedenti. E i dubbi aumentano: come può il suo corpo, pesante, essere leggero rispetto a questi corpi levi, ossia l’aria e il fuoco? Dante crede cioè di salire anche con il corpo, ma così non è. Beatrice allarga, nella sua risposta, il problema dell’ascesa in cielo alla naturale tendenza dell’anima verso Dio, fino ad una straordinaria e potente visione dell’ordine universale in cui tutte le cose sono ordinate a immagine e somiglianza del suo Creatore. Il fulcro del discorso è il “naturale” salire di Dante: Beatrice insiste cioè molto sul fatto che l’ascesa non è un miracolo, ma il naturale corso delle cose, che vuole l’avvicinamento dell’anima alla sua meta finale (Dio) una volta compiuta l’espiazione totale.
Come il fiume dal monte scende a valle e il fuoco sale verso l’alto per naturale impulso, così l’anima monda di Dante si avvia con naturalezza verso l’Empireo.