Laddove stavano per ammassarci non avremmo avuto spazio che per fare pochi passi. Eravamo così tanti.
Il personale era in attesa, e preparato ad eseguire con precisione le procedure.
Per loro non eravamo che numeri, tutti uguali tra noi:
Stesso tatuaggio, stesso sguardo spento, stesso capo chino. Nessun diritto, nessuna dignità.
Eravamo sconvolti e disorientati. Molti non comprendevano ciò che stava per accadere o rifiutavano di crederci, altri si erano rassegnati da tempo.
Gli addetti sfruttavano a loro vantaggio questo nostro smarrimento, e procedevano con grande rapidità mantenendoci nell’illusione.
Così entrammo direttamente all’interno della recinzione per avanzare verso un lungo e stretto passaggio, alla fine del quale una porta a sbarre si sarebbe alzata e riabbassata dietro di noi, uno alla volta.
Presto sarebbe stato il mio turno.
Dalla distanza a cui mi trovavo non riuscivo ancora a vedere cosa stesse accadendo al primo di noi, che aveva appena oltrepassato quelle sbarre, ma potevo intuirlo:
Le grida strazianti che udivo, non lasciavano spazio all’immaginazione.
Qualcuno cercò inutilmente di indietreggiare, di ribellarsi, ma nessuno di noi si sarebbe salvato, eravamo costretti ad avanzare.
Nell’aria cominciò a sentirsi l’odore acre del sangue al quale, presto, si sarebbe mescolato anche il mio.
Vidi il compagno prima di me entrare in quella trappola, fatta di lastre di metallo che si stringevano sul suo corpo immobilizzandolo. Un addetto, dall’alto, gli puntava una pistola alla testa. Lo sparo fu silenzioso. Le lastre mobili si staccarono dal suo corpo, lasciarono la presa, e l’amico mio cadde in terra stordito, ma ancora vivo.
E non ricordo se fu trascinato o spinto, o se semplicemente scivolò, ma in un attimo fu oltre la trappola, in cui ora ero io a dover entrare.
Cercai di indietreggiare. Sapevo di non poter fare nulla, ma l’istinto di sopravvivenza era più forte della rassegnazione. Ero terrorizzato e cominciai a tremare, dimenarmi, scalciare e piangere.
Vennero in quattro a tenermi e condurmi oltre la porta a sbarre, e in quell’istante sperai di morire subito dopo il colpo alla testa, perché le grida dei miei compagni proseguivano oltre quelle lastre, ma non fu così.
-Buongiorno, signor Peterson, il suo carico è pronto a partire.
-Dio mio, ma come sbraitano là dentro, come fate a sopportare queste urla? E come li uccidete?
-Ci si fa l’abitudine, signore! Li stordiamo con una pistola a proiettile captivo. Dopo lo sparo però, alcuni restano ancora coscienti e qualcuno prova anche a rialzarsi, ma li appendiamo per una zampa e tagliamo loro la gola, mentre ancora continuano nel vano tentativo di respirare. Le zampe le amputiamo un minuto dopo lo sgozzamento, poi li spelliamo e li facciamo a pezzi con le seghe elettriche. Nella sala di taglio non si trova più alcun segno dell’individuo che sono stati, sono solo pezzi di carne, quelli che ora sono sul suo camion!