Grande tifoso di calcio e soprattutto del suo Bologna, Pier Paolo Pasolini. Non credo che tutti quelli della generazione di mio padre si ricordino del lontano 1971, quando Pier Paolo partecipò alla partita di beneficenza con la “Nazionale di calcio Attori” allo stadio Flaminio. Alcune foto dell’epoca lo ritraggono tra azioni rocambolesche e ginocchia inclinate con la palla tra i piedi. Corpo snello e slanciato, il solito volto austero perché concentrato, con le braccia spalancate sembrava una ballerina di danza classica muoversi sulle punte. C’è da dire che Pier Paolo non scrisse molto sul calcio, e alcuni suoi interventi sono riconducibili a degli appunti sparsi, o a delle registrazioni poi annotate su dei taccuini scoperti nell’appartamento dove risiedeva, dopo la sua tragica morte.
Niente frasi fatte, slogan pubblicitari, pacchianate giornalistiche, pagine infarcite di un linguaggio goliardico e metafore astruse e inopportune, tutto quello che vorreste leggere sul calcio, nella scrittura di Pier Paolo non lo troverete, semmai qualcosa in più, d’ulteriore. Niente che la solita smania italiana possa ridurre in facile conformismo, o tradurre in sgradevole salutismo per le pubblicità televisive. Nella prospettiva di Pier Paolo, il calcio vive, coi suoi simboli e col suo modo di comunicare, in una dimensione simbolica, qualcosa che prende le sembianze di un organismo avulso dal contesto in cui è nato e che assume tutte le caratteristiche del linguaggio per eccellenza, cioè come misura e termine di confronto tra più individui, ovvero il linguaggio del corpo. Ciò che più colpisce, però, è lo statuto che questa disciplina impone al calciatore, e che Pier Paolo ha avuto modo di osservare già negli anni ’70, divinizzando l’uomo non più bambino e immettendolo in una meta-realtà che non ha nulla a che vedere, appunto, con la realtà stessa. Pasolini intende come calcio il punto d’incontro tra l’esperienza empirica, quindi il mettersi alla prova col mondo dei ragazzi, e l’analisi sociologica.
Ogni giovane calciatore, qualunque sia la sua estrazione sociale o il suo background culturale, vive il suo clima di divinità senza autocritica, senza dubbi e senza la paura del rischio e dell’errore: insomma in uno stato di dissociazione dal mondo, in una perpetua, apparente e al contempo fragile bolla di certezze infantili. Egli, senza il dono del dubbio, consustanziale ad ogni essere umano, vive in un immediato pragmatismo, riduce tutto al livello della pratica, nutrendosi continuamente delle situazioni più palpabili del successo e della vana gloria. Vittima di una sproporzione tra la sua normalità e l’anormalità del suo destino, ovvero tra ciò che è e rimarrà, e tutto quello che lo fa sembrare ciò che non è. La divinità, secondo Pasolini, è in questa sproporzione. Tutto ciò che un calciatore vuol far credere di essere è solo il sintomo di quest’apparenza.
Nel Reportage sul Dio del ’63, questo Dio giovane e birichino è anche un modo per mostrare, nello squallore come dimensione del mondo, uno squarcio di mondo onesto e pulito. La critica pasoliniana – muovendosi tra le forme espressive più disparate: poesia, narrativa, cinema, teatro, giornalismo, critica letteraria – nutre continuamente il sospetto verso una cultura che distrugge le origini e l’identità individuali. Il successo e il calcio sono divenuti essenzialmente un bacino nel quale si organizzano le masse, promotori e produttori dei gusti e dei costumi. Niente sfugge a questo sospetto, e tutte quelle stelle che nascono, che scendono dalla scaletta del transatlantico e del jet, avvolti da un prestigio effimero, lusinghiero ma passeggero, sono animali in procinto di essere sacrificati dall’isterismo collettivo e petulante del popolo italiano.
Un paese, l’Italia, sempre irrequieto, annoiato, ossequioso e senza fede, coi calli duri del disamore, perché possa quello squarcio di onestà tramutarsi, ancora una volta, nel nuovo Dio che avanza, sedativo di un doloroso presente.